The Apprentice – Alle origini di Trump
La reensione di The Apprentice, di Ali Abbasi, a cura di Martina Volpato.

I dolori del giovane Donald. New York, primi anni Settanta. Come il figlio di uno dei più quotati immobiliaristi della Grande Mela, ambizioso ma acerbo, tentò, tra megalomania, cinismo e risvolti torbidi, di intraprendere la scalata imprenditoriale ai vertici della città e del paese. E poi del mondo, al di là della cornice del film, in un futuro sottinteso che è il nostro presente di pressante attualità, alle soglie delle elezioni presidenziali statunitensi. The Apprentice snoda la parabola di Donald J. Trump agli esordi della sua carriera quando si fece strada nell’edilizia del lusso a Manhattan, ad Atlantic City, in Florida, in più di un decennio fino al 1986, fino agli accenni iniziali dell’impero miliardario. Al suo fianco, mentore e demiurgo dei suoi affari rampanti, l’avvocato e faccendiere Roy Cohn, luciferino e spregiudicato, e poi la prima moglie, la fotomodella cecoslovacca Ivana Zelníčková, presto sottomessa al suo machismo tossico.
Ali Abassi, regista iraniano naturalizzato danese, persegue con The Apprentice quella cruda poetica di svelamento delle verità politiche nascoste, delle storture taciute o omesse, sotto le spoglie del solido film di genere; ispirazioni già tradotte con Holy Spider, thriller al femminile dalla messinscena scioccante per la descrizione di un Iran violento e corrotto, ma girato in Danimarca per ovvie esigenze anti-censura.
Con questo biopic dove lo scavo psicologico sul personaggio sovrasta involontariamente il programmatico intento di denuncia, Abassi aggira ancora, diversamente, un’altra censura, quella dell’establishment vicino all’ex Presidente, e. dopo traversie produttive e distributive, firma il ritratto del killer da giovane (come lo stesso Trump si definisce nel film), del capitalista dentro e contro il sistema, del patriota narcisista: il protagonista assoluto dell’unico instant movie possibile oggi.
Opera scritta con lo scopo di incidere sul reale e di disinnescare l’alone mistificatorio intorno a Trump, di ribaltare retoriche elettorali, affabulazioni comunicative e abbagli d’immagine di un personaggio mastodontico e smascherabile, discusso e discutibile, famelico e transmediale, The Apprentice si svela progressivamente per quello che non è e non per quello che invece aspira a essere. Nonostante gli sforzi di scandagliare gli esordi agguerriti, sprezzanti e persino nefasti del tycoon, di pennellare il capitalismo anticomunista nei suoi biechi ideali e nella sua avidità individualista, il film di Abassi non solo espone capitoli biografici già in parte noti (soprattutto al pubblico statunitense), ma solo in poche scene regia e scrittura imprimono uno sguardo corrosivo, una critica oltre gli stereotipi del genere di denuncia a stelle e strisce, un tono sarcastico e canzonatorio che smorzi la sagoma scenica, animalesca, fredda e affettata del personaggio. Insomma, già la sua dimensione politica in essere.
Distante quindi dalle operazioni compiute da Michael Moore con il documentario Fahrenheit 11/9, ma anche dalla trasfigurazione ironica, farsesca e implacabile della mediocrità del male e del potere che fece Adam McKay con Vice su Dick Cheney, The Apprentice (l’apprendista), racchiude altre anime, interseca vari piani di lettura, apre a nuove suggestioni, talvolta percorribili e talvolta a strada serrata.
Chi è dunque l’apprendista del titolo, al di là della citazione di un reality show con protagonista Trump (The Celebrity Apprentice), se non un giovanotto privilegiato e di belle speranze ma ancora claudicante nella fossa dei leoni, il figlio bistrattato di un padre autorevole, fratello minore di un alcolista in declino, un sognatore prosaico con già i giudici alle calcagna? Racconto di (de)formazione sulla perdita dell’ingenuità, sulla corruzione della giovinezza che si espande per allegoria a un paese orfano di valori morali dietro la demagogia nazionalista, The Apprentice nella seconda parte riscrive in antitesi la freschezza e gli slanci genuini del giovane Trump, come in uno specchio capovolto. Un’Alice in pantaloni, in un paese eretico delle non meraviglie.
Ma se il film come Bildungsroman scorre bruscamente da una fase all’altra, componendo un dittico troppo netto, nemmeno è perfettamente a fuoco il suo correlato versante di ritratto psicologico, carente di un’opacità prismatica come può essere la radiografia di un rampollo del Queens fattosi re. Perché, in realtà, il soggetto in sé non ha nulla di profondo su cui indagare, sviscerando traumi e misteri della giovane età, come spiega lo stesso Trump a un giornalista. La negazione, insomma, del paradigma di Quarto potere. Nessuna slitta, nessuna Rosebud, niente Xanadu; neppure l’archetipo fondativo della Trump Tower, un feticcio rincorso, edificato e poi quasi surclassato da altro.
In questo scarto di bivi interpretativi, è proprio la già citata dimensione speculare ad aprire una nuova prospettiva su The Apprentice, che carsicamente fa scorrere un genere inedito al personaggio stesso: il melodramma di un’amicizia virile naufragata sugli scogli del successo e degli eccessi. Nella sequenza iniziale lo sguardo dell’avvocato Roy Cohn che ricambia quello del giovane Trump in un club esclusivo è il riflesso di due anime complementari, in un costrutto narrativo chiastico dove i due nel corso degli anni, legati da rispetto profondo e sintonia professionale, invertiranno i ruoli di mentore e apprendista, di vincitore ed emarginato, fino allo scacco definitivo mosso dalla ricchezza e, come in ogni melodramma che si rispetti, dalla malattia, dalla morte. Sul solco del mito di Faust, The Apprentice allestisce la parabola di un’amicizia corruttibile nelle cadenze di un patto utilitaristico e mefistofelico. La specularità di inquadrature tra i due rima con la scena in cui Trump, dopo la perdita del fratello, si lava ossessivamente le mani, come una moderna Lady Macbeth in preda ai sensi di colpa, davanti a uno specchio, oggetto fin dalla cultura medievale associato al potere del maligno.
E in questo laccato ma cupo dramma, che a un certo punto rievoca inaspettatamente Philadelphia di Jonathan Demme, la cinepresa di Ali Abassi, in coerenza con il genere, restringe le passioni distorte dei personaggi in un ambiente circoscritto, quelli di asettici uffici e appartamenti altolocati, mentre la metropoli si affaccia con scorci stilizzati o esterni di repertorio. Al contempo lo stile semidocumentaristico, con codici espressivi ricorrenti nel cinema degli anni Settanta (zoom, macchina a mano), attanaglia il nostro sguardo su questi volti compiaciutamente deviati dal dio denaro, fedeli alla legge darwiniana della selezione naturale, spietati ma anche vulnerabili all’incoerenza del prossimo, alle promesse mancate, alla volubilità del destino più beffardo di loro. Uno psicodramma che implode, ad eccezione della sequenza della cena, dal sapore carnascialesco, mentre il formato ridotto dello schermo 4:3 e la fotografia sgranata prosciugano la materia narrata e qualsiasi anelito verso il Sogno americano nella sua innocenza.
Non inedita e certamente non primigenia nel cinema biografico degli ultimi decenni la figura del maestro che è un diavolo tentatore per aspiranti scalatori finanziari, da The Social Network di David Fincher a The Wolf of Wall Street e Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese, in The Apprentice il personaggio di Roy Cohn rivive, dopo varie rappresentazioni oltreoceano tra letteratura, teatro e tv, nella metamorfosi austeramente sanguigna, dostoevskiana di Jeremy Strong, in grado di accartocciare la sua dirittura fisica, rendere vitreo e implorante lo sguardo un tempo enigmatico, nella disfatta contro l’unica legge che non può aggirare. In questo modo l’interprete della fortunata serie Succession aggiorna il suo canone del capitalista newyorkese derelitto, mentre anche gli altri attori selezionati da Abassi iscrivono segretamente sui loro personaggi altre sfumature di Trump, alludendo a ruoli che li hanno resi celebri. Da Sebastian Stan, di fine mimetismo nei panni dell’imprenditore, avvezzo a ruoli da maschilista virulento (Tonya, Pam & Tommy) a Maria Bakalova, star di Borat – Seguito di film cinema, dove si prendeva Trump come bersaglio di satira.
Un lavoro sul corpo degli attori che arricchisce un lavoro del corpo tout court, che diventata sostrato di ulteriori significati dietro l’ascesa del protagonista: dagli interventi dimagranti dell’ex Presidente alla sua idiosincrasia per le calvizie, dalla paranoia per i contatti fisici in piena pandemia di Aids al corpo rifatto della pentita Ivana: più che lo svilimento dell’anima, The Apprentice abbraccia un’altra recente magnifica ossessione del cinema statunitense, quella del corpo svenduto, svecchiato, oggetto di un culto malsano, come in Anora e The Substance, pellicole in concorso a Cannes 2024 insieme a The Apprentice.
Ma fra tutti i corpi, quello che si carica il peso di questo film coinvolgente e imperfetto, dal finale non consolatorio, è quello al tramonto, straziante, di Cohn/Strong. Tanto che è lecita una domanda: e se fosse lui il vero apprendista del titolo, che al termine del racconto di formazione, soppiantato il vademecum etico impartito all’amico (“attaccare, negare la verità, mai ammettere la sconfitta”), approda a una più catartica coscienza del vivere, in mezzo alle ceneri di manipolazioni e complotti, tramite la cognizione del dolore?

di Martina Volpato