Taxi Monamour
La recensione di Taxi Monamour, di Ciro De Caro, a cura di Gianlorenzo Franzì.
Al quarto film, è ormai chiaro come Ciro De Caro abbia bene in mente una sua idea di cinema e soprattutto un suo mondo narrativo e poetico di riferimento: Taxi Monamour condivide infatti lo stesso universo di Giulia e non per niente la stessa attrice protagonista, Rosa Palasciano. Ed è un rapporto più che osmotico e simbiotico, quello tra la bravissima Rosa e lo sguardo di Ciro: perché l’autore di Spaghetti Story continua pervicacemente a seguire un percorso umano di spaesamento esistenziale, ma è un tracciato che non sarebbe possibile e che anzi prende vita e soffio vitale proprio dallo sguardo e dalla fisicità liquida e morbida della sua attrice/musa.
Anche in Taxi Monamour allora la vibrazione filosofica della protagonista Anna, come della sua controparte Nadia (Yeva Sai), era inevitabile, se è vero che De Caro racconta quella fluidità intima che si traduce ed è nello stesso tempo prodotta da una non stanzialità professionale: e qui diventa un gioco di pedinamenti e rincorse declinate al femminile, sfumando là dove la relazione umana diventa voyeurismo, e accentando la mancata immobilità.
De Caro arriva fino all’iperbole di raffigurare Roma come non-luogo, per restituire un’attualità straniata, instabile ed ondivaga che poi è anche quella del precariato (affettivo o professionale non ha importanza, tanto è sempre urgente e attuale): e anche per questo c’è il rischio che ad una prima visione, o una visione distratta, il suo cinema potrebbe sembrare impalpabile, fin troppo arioso. Ma c’è Palasciano che lo ancora fortemente sulle emozioni, creando esplosioni interne ed esterne, rivelando una precisa scelta narrativa, arrivando ad essere la bussola per la progressione emotiva della storia.
Certo, il percorso di De Caro come autore si avverte come ancora non concluso, specie nell’insistente uso della steady e della camera a mano, e quell’ostentazione di fragilità che a volte frena la partecipazione emozionale. Ma è ancora di più, forse, un cinema da tenere d’occhio, perché ostinatamente personale, e senza pudori nel mostrare la vulnerabilità di tutti, oggi, tra la malinconia e il grottesco.
di Gianlorenzo Franzì