Parliamo delle mie donne

Tra i capricci della distribuzione, uno mi diverte da anni: la scelta del titolo del film straniero da mandare in sala. Oggi buona parte dei film americani mantiene il suo titolo originale, anche se è gergale o con parole  sconosciute. Regna invece l’anarchia per i film francesi e spagnoli. Il caso di Parliamo delle mie donne, girato nel 2014, ma arrivato solo adesso nella sale italiane, è  davvero singolare: invece di lasciare l’originale Salaud, on t’aime, possibilmente tradotto a causa dell’aggettivo difficile con un letterale  e agrodolce “Bastardo, ti amiamo”, espressione che nel film ritorna spesso perché è il titolo del libro biografico con un cui una figlia regola i conti col protagonista, la distribuzione si è inventata un titolo più accattivante, che promette una girandola di amori in chiave di commedia, mentre il film parla della difficoltà dei rapporti tra un padre sempre assente (fa il fotografo di guerre o drammi sociali) e le sue quattro figlie, avute da altrettante compagne, rimaste sempre lontane. E, perché Lelouch non si fa mancare niente, arriva sul finale una quinta figlia, in realtà la primogenita, nata  a Cuba durante la rivoluzione e che per decenni non ha mai saputo chi fosse suo padre.

Criticato il titolo, che comunque non è servito a estendere la platea degli spettatori, ci siamo accorti di aver  raccontato il film, salvo che nel finale da tragedia. La cornice è quella, molto Lelouch, di una baita di lusso (c’è perfino la piscina coperta) con un vasto terreno sulle pendici francesi del Monte Bianco, dove il celebre fotografo Jacques vuole ritirarsi a vivere trovando un ultimo amore ma cercando invano il conforto delle quattro figlie che non hanno mai ricevuto le dovute attenzioni  e che accorrono nella baita solo perché indotte da un medico amico di famiglia a credere che il settantaduenne padre sia in fin di vita.

C’è tutto Lelouch in questo suo quarantaduesimo titolo (altri dicono quarantaquattresimo). D’altronde il prolifico regista in quasi tutti i suoi film è prigioniero di un’estetica ridonante, fashion e glamour, che tutto avvolge e tutto circoscrive fino ad essere interpretata come un’etica edonistica. A ottant’anni il cineasta non ha perso smalto e abilità con la macchina da presa, ancora una volta posta nelle sue mani. Gli anni che avanzano si vedono, oltre che nella scelta del tema funereo, in certi errori e in molti buchi della sceneggiatura, che a un certo punto si ingarbuglia, appesantisce il film e ci consegna almeno due o tre finali. Per il resto è il solito Lelouch, e se vi siete persi qualche decina dei suoi film, non c’è da spaventarsi. Con lui ci si ritrova sempre, come con un parente che vediamo solo ai battesimi e ai funerali.

Il suo marchio di fabbrica è nell’eleganza della forma, nella delicatezza dei sentimenti, nella grazia un po’ leziosa, nelle musiche di Francis Lai. Chiacchiere, affetti, rimpianti, canzoni d’antan (nel caso Fitzgerald e Armstrong), tavolate, intimità familiare e amicale. I luoghi comuni sull’amore e la solitudine ci sono tutti, la banalizzazione è in agguato. Ma la confezione è accattivante: Lelouch vede attraverso la macchina da presa, e comunica il piacere evidente di dirigere un film, di scegliere le inquadrature, di predisporre una cornice regale, di dirigere gli attori, tutti ben scelti e piegati ai suoi voleri.

Eppure questo ennesimo Lelouch merita uno sguardo più attento. E’ un film testamento di autore che si racconta attraverso la vita di un famoso fotografo quasi coetaneo, padre, come scopriremo nel sottofinale, di cinque figlie. Lelouch, che fa anche il direttore della fotografia, ha qualche anno di più del suo protagonista, due figli di più e può vantare anche lui la sua piccola galleria di mogli. La malinconia senile e il rimpianto per il passato perduto sono del protagonista come del regista. Il testamento è amaro, anche tragico, ed è recitato da un sorprendente Johnny Hallyday, con occhi di ghiaccio e una faccia rugosa quanto basta. Il racconto evidenzia la perdita dell’amore filiale, non fa posto alle mogli (ma concede all’ultima compagna, una radiosa Sandrine Bonnaire , una parte essenziale), e omaggia la realtà dell’amicizia virile, destinata a sopravvivere ai rapporti coniugali. In una delle scene più belle Johnny Hallyday ed Eddy Mitchell, che impersona il medico-amico, cantano la canzone intonata da Dean Martin e Ricky Nelson, mentre stanno guardando in tv Un dollaro d’onore, ricordato (a proposito dell’arbitrarietà delle traduzioni) con titolo originale di Rio Bravo.

È possibile resettare il passato, perdonare e farsi perdonare? Una famiglia mai esistita si può ricomporre? La menzogna a fin di bene è uno strumento accettabile? Le risposte che dà il film sono quasi tutte negative. La resa dei conti è ineludibile. E la commedia vira (un po’ troppo velocemente ) in tragedia. Si pensa a Amour, di Michael Haneke, ma non è giusto fare un simile torto a Lelouch, quando finalmente decide di lasciarsi contaminare dalla sincerità. Nessuna luce spirituale accompagna la luce della natura sulle Alpi. L’umanità, come la famiglia, è dispersa. Un’aquila ammaestrata vigila su questa tragedia umana, riesce a consolare Jacques, ma alla fine si impossessa della baita rimasta vuota. Le immagini del rapace accompagnano tutto il film, ma Lelouch esita a darle lo spessore di una metafora. Sincero sì, ma non cattivo.

Trama

Il celebre fotografo  Jacques Kaminski ha oltrepassato la settantina e cerca di dare una svolta alla sua vita. Acquista una proprietà sulle Alpi e decide di stabilirvisi. Ma vuole anche conquistare l’affetto delle sue quattro figlie , avute da donne diverse, e sempre sacrificate alla carriera. Uno stratagemma conduce le figlie dal padre, ma l’incontro riserva solo amarezze.


di Giorgio Rinaldi
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