Nome di donna
Alla sua filmografia lunga quasi 40 anni, scarna di titoli (appena dieci lungometraggi) ma non di riconoscimenti, Marco Tullio Giordana affianca ora questo Nome di donna prodotto dalla Lumière & Co. di Lionello Cerri e da Rai Cinema. Il regista milanese (classe 1950) conferma ancora una volta la sua predilezione per un cinema di denuncia civile che affronta le questioni sociali e politiche cruciali (e irrisolte) del nostro paese, scavando nella memoria, oggi sempre più labile, delle sue vicende più drammatiche, dalla stagione del terrorismo al delitto Pasolini, dai ‘delitti di Stato’ a quelli delle diverse mafie.
Il regista milanese (classe 1950) conferma ancora una volta la sua predilezione per un cinema di denuncia civile
Tra i momenti più alti e apprezzati delal sua carriera vanno certo ricordati due film di inizio secolo come I cento passi (2000, sceneggiato insieme a Claudio Fava e Monica Zapelli, ovvero due scrittori) e La meglio gioventù (2003, il cui script è firmato dalla coppia Rulli e Petraglia, già autori della sceneggiatura di Pasolini, un delitto italiano, 1995, e più di recente anche di Romanzo di una strage, 2012). Giordana torna ora sul grande schermo a distanza di sei anni proprio da quel film che, tra ricostruzione storico-politica dell’attentato di Piazza Fontana e dramma giudiziario, restituiva lo ‘spirito dei tempi’ dell’Italia di fine anni ’60 (grazie anche a un cast di ottimo livello, specie nei ruoli maschili, da Favino a Mastrandrea, da Gifuni a Lo Cascio). Nel frattempo, in realtà, il regista aveva diretto (e scritto di nuovo insieme a Monica Zapelli) Lea, una solida fiction televisiva sulla tragica vicenda di Lea Garofalo uccisa ad opera del compagno affiliato alla ‘ndrangheta.
Si sa che Il lavoro di scrittura, al pari delle scelte di cast, riesce spesso a fare la differenza rispetto agli esiti di un’opera cinematografica. E’ per questo che ci soffermiamo su questi precedenti: sta infatti soprattutto qui il motivo per cui si esce dalla visione di Nome di donna assai delusi pur nella condivisione dell’importanza delle istanze sociali che ispirano il film (uscito in sala nella giornata internazionale della donna e che giustamente ha ottenuto il patrocinio di Amnesty Italia).
Se anniversari e commemorazioni non possono da soli risolvere i problemi di fondo di una nazione (che appare oggi, non a caso, ancora più lacerata e divisa), anche le buone intenzioni non si traducono automaticamente in buon cinema. Va detto, a onore della co-sceneggiatrice Cristiana Mainardi, che la storia di Nina, oscuro, ma non troppo, oggetto del desiderio del boss della casa di cura per anziani riccastri dove ha ritrovato l’opportunità di un lavoro stabile e di un nuovo inizio, era stata concepita ben tre anni fa. Parliamo dunque di tempi non sospetti rispetto allo scoppio dell’affaire Weinstein e all’emergere del movimento e della campagna mondiale #metoo che già dal nome indica la diffusione del fenomeno (quanto all’Italia i rapporti Istat ci parlano di quasi nove milioni di donne che hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul luogo di lavoro e queste cifre non contano certo tutto il “sommerso” di questi abusi). Anche nel nostro paese, poi, questo fenomeno si inserisce in un quadro di progressiva e inarrestabile precarizzazione (quando non di vera e propria “schiavizzazione’) del mondo del lavoro, con la sua inesauribile riserva di lavoro che non chiede diritti (nel film Nina si scontrerà con il muro di omertà impaurita di quasi tutte le colleghe, molte delle quali “straniere” e dunque doppiamente fragili o ricattabili).
Ma questi fenomeni sociali complessi, spesso contraddittori, nella scrittura ricevono un trattamento che li semplifica al massimo grado (purtroppo secondo logiche tipiche di certa fiction televisiva da prima serata) al servizio di una “tesi” tanto giusta quanto precostituita. Così, lo svolgersi delle vicende e soprattutto la costruzione dei personaggi, non prevede margini e sfumature di sorpresa o ambiguità, a cominciare dalla protagonista, la “ribelle” Nina, cui Cristiana Capotondi presta una maschera piena di buona volontà ma espressivamente monocorde (più ‘in parte’ molte delle figure femminili di contorno, come le sindacaliste e avvocatesse, citiamo per tutte Laura Marinoni e Michela Cescon, mentre sempre di un’altra classe risulta il pur piccolo ruolo affidato ad Adriana Asti). Dello stesso problema soffrono anche i personaggi maschili del film, appiattiti in schemi non immuni da stereotipi che finiscono per frenare la performance di attori di razza come nel caso del ‘don Ferrari’ (direttore delle risorse umane e disumane della casa di cura) di Bebo Storti o del prete di campagna di Renato Sarti e, ancor di più del “vizioso” megadirettore onnipotente Marco Torri, al quale Valerio Binasco riesce ad assicurare comunque credibilità facendo ricorso a tutte le sue doti istrioniche.
Ad essere più che altro accennata, a tratti descritta, ma mai davvero sviluppata dal racconto risulta infatti quella pervasività di un sistema di potere che vede alleati e complici imprenditori (della sanità privata), politici e uomini di Chiesa (a vari livelli), e persino giudici, un sistema così coeso da restare impunito e annullare, anche a dispetto delle norme vigenti, ogni tentativo di rottura ad esempio da parte del sindacato (il film in realtà, fedele ai suoi propositi, prevede una risoluzione ‘positiva’ sul piano dell’esito giudiziario delle vicende, non però sul piano professionale…).
Giordana sceglie qui un atteggiamento sin troppo distaccato, e la regia ci sembra avere un ruolo molto descrittivo, con molte inquadrature statiche e un sovrappiù di vedute dall’alto del suggestivo paesaggio della campagna pavese e della grande villa dove hanno luogo le vicende, mentre la musica suona a tratti decisamente enfatica.
Sono passati 15 anni da un film come Mi piace lavorare (Mobbing) di Francesca Comencini (2003), un’opera anch’essa ‘a tesi’, ma dove l’esattezza e credibilità dei fatti narrati (era del resto in origine un progetto documentario) e lo scavo psicologico del personaggio di Nicoletta Braschi, ne fanno tuttora un film molto attuale (come è anche, ad esempio, per Tutta la vita davanti di Paolo Virzì, 2008). Nel frattempo, la condizione femminile nel mondo del lavoro, dalle diseguaglianze salariali alla sicurezza, sino alla cronica vulnerabilità della sua dignità umana e professionale, resta molto preoccupante. Nome di donna ci aiuta a ricordarlo ma forse non a indignarci davvero.
Trama
Nina (Cristiana Capotondi) si trasferisce da Milano in un piccolo paese della Lombardia, dove trova lavoro in una residenza per anziani facoltosi. Un mondo elegante, quasi fiabesco. Che cela però un segreto scomodo e torbido. Quando Nina lo scoprirà, sarà costretta a misurarsi con le sue colleghe.di Sergio Di Giorgi