Love is All You Need
Se qualcuno vi raccontasse anche solo per sommi capi la trama del film e poi cominciaste a sentire puzza di bruciato leggendo l’orribile titolo dell’edizione italiana sospeso a metà tra reminiscenze beatlesiane e un vago sentore di soap opera, il nome di colei che ha diretto il film vi metterebbe al riparo da ogni sospetto. Entrereste cioè in sala sicuri di assistere all’ennesima vivisezione della famiglia in salsa scandinava e il suo sfascio contornata in questo caso da temi “pesanti” quali l’elaborazione del lutto, il tradimento mentre si hanno le difese immunitarie dello spirito bassissime e la seconda chance che la vita offre anche a chi ha toccato il fondo di tutto. Il nome di Susanne Bier, cinquantaduenne regista e sceneggiatrice danese arrivata nel 2011 fino all’Oscar per il miglior film straniero con il chirurgico In un mondo migliore dovrebbe cioè funzionare come una sorta di garanzia circa i rischi potenziali che queste premesse un po’ inquietanti farebbero pensare di poter correre.
Sorpresa: non è affatto così. Love is All you need è un’incredibile scivolone tutto melassa, buonismo e invito al fazzoletto che può capitare di fare anche ai più duri e puri in momenti di stanca o di assenza di ispirazione. Al punto che pare difficile credere, uscendo dalla sala, che un film di questo tipo possa essere stato scritto e diretto dalla stessa autrice dei due bergmaniani e intensissimi Noi due sconosciuti e Dopo il matrimonio. Si rimane così sconcertati dall’intera operazione da arrivare addirittura a pensare che si tratti di una forma irriverente di parodia sottile nella quale gli schemi della commedia romantica sullo sfondo di dolore e malattia vengono riciclati così come sono nella loro piatta superficialità per dissacrarne la vacuità e mostrare quanto letale possa essere questo tipo di cinema. Ma probabilmente non erano queste le intenzioni della Bier e il semplice atto di attribuirgliele risulta una forzatura volta a salvare in corner un prodotto che è davvero arduo non guardare con grande fastidio.
Al centro della vicenda c’è un matrimonio che due giovani stanno organizzando in una bella villa sulle alture di Sorrento. Lui, Patrick, è il figlio di Philip, importante ma fascinoso imprenditore nel campo ortofrutticolo, mentre lei, Astrid, è la figlia della parrucchiera Ida che fin dalle prime scene del film scopriamo non essere al meglio della parabola della propria vita: reduce da un cancro maligno che le è costato l’asportazione di un seno, il giorno prima di partire per Sorrento per prender parte al matrimonio della figlia, torna a casa prima del previsto e trova il marito impegnato a fare gli esercizi spirituali con una collega molto più giovane di lui.
Sconvolta, la donna parte in direzione dell’aeroporto. Turbata com’è dagli sconquassi esistenziali che le sono piovuti addosso negli ultimi mesi e giorni, perde il controllo della macchina mentre sta cercando di parcheggiare e centra in pieno (ma guarda un po’ che caso!) la bellissima Lancia presidenziale guidata da Philip. In un attimo i due capiscono chi sono (e lo spettatore deve accettare che non si conoscano affatto anche se i rispettivi figli stanno per sposarsi!) e fanno loro malgrado il viaggio insieme fino a Sorrento iniziando a becchettarsi come in una commedia screwball con Spencer Tracy e Catherine Hepburn, senza però avere sulle labbra battute capaci di elevare la sceneggiatura a quei livelli di fioretto verbale.
Una volta in Italia, tra i due inizia a palesarsi una certa attrazione, acuita dal senso di comunione nella disgrazia che li affratella prima ancora che l’amore faccia il resto, visto che anche Patrick ha il suo bel carico di infelicità profonda avendo perso la moglie molti anni prima, motivo per cui non ha più voluto rimettere piede nella magnifica villa sorrentina per i troppi ricordi legati alla consorte amatissima. Nel frattempo però tra gli sposi iniziano a palesarsi le prime crepe destinate a una deflagrazione finale che è bene non anticipare ma che chiunque in sala intuisce non appena vede aggirarsi per casa il Ciro Petrone che in Gomorra sognava di fare il boss in grande e poi finiva sparato malamente a fine film, e che qui invece agisce da agente deflagratore nello spappolarsi della coppia che non ha da essere.
Mentre la festa serale che precede le nozze e le nozze stesse (anche qui è meglio non anticipare nulla) offrono a tutti gli invitati l’occasione per dare il peggio di sé rinvangando vecchi rancori sopiti per anni – attenti, anche se siamo in zona Dogma l’aria e l’aura di Festen sono lontane anni luce – e mostrando la propria miserabile pochezza e l’infinita meschinità che sembra non risparmi nessuno, Philip e la bella Ida capiscono di poter ricominciare insieme una nuova vita. Sembrerebbe un finale, ma non è così perché si deve sopportare ancora un rientro a Copenhagen con il vero finale in salsa Pretty Woman (la sola differenza è che Ida non fa la prostituta come il personaggio di Julia Roberts) nel quale l’amore trionfa e la malattia viene definitivamente sconfitta da un referto confortante giunto dall’ospedale dove la protagonista ha preteso delle analisi circa una possibile recidiva del cancro che l’ha piegata e piagata per mesi.
Spiace dirlo, ma tutto è immerso in uno strato così spesso di melassa rosa che si stenta davvero a credere che questo sia un film della stessa regista che ha diretto In un mondo migliore. Le intenzioni erano forse le migliori. Ovvero partire da condizioni feroci come un cancro maligno e una vedovanza trattandole senza falsi pietismi e risollevando le due vite strozzate dal dolore e dalla malattia con il regalo di quella “seconda occasione”che è ormai così abusata al cinema da aver spinto gli operatori del settore a creare una specie di sottogenere che negli USA prende il nome di second chance movie. Ma all’atto pratico si tratta di mere intenzioni rimaste tali. Ciò cui invece e purtroppo si assiste è una specie di soap opera sudamericana in cui i nomi e le facce sono scandinave e la sola differenza rilevante nei troppi piagnistei da melodramma isterico che vengono ammanniti è la nonchalance con cui la gente accetta e porta le corna e mostra senza pudore i propri orientamenti sessuali “non secondo natura” (come reciterebbe la pagina di un buon manuale di catechismo degli anni ’60).
In ultimo c’è per noi italiani l’ennesima mazzata in stile spaghetti e mandolino che francamente non è più possibile accettare. Specie se viene da un’autrice che ha dimostrato di essere un’attenta notomista delle più contorte pieghe dell’animo umano ma anche di quelle sociali ed è sempre stata attenta a raccontare la realtà per quello che è e non per l’immagine preconcetta e stereotipata che ciascuno può averne in testa. Dopo lo spaventoso To Rome with Love di Woody Allen (suo peggior film di sempre con una Roma solo folclore e luoghi comuni fuori dal tempo come non si vedeva più dagli anni ’50), questa volta è toccato alla danese Susanne Bier farsi stregare non tanto dal nostro paese quanto dalla vergognosa immagine tutta cibo, vino, bellezza e angoli pittoreschi che solo un occhio sprovveduto può ancora avere il coraggio di spacciare come autentica e credibile. Un’immagine stomachevole che strazia lo spettatore di casa nostra fin dalle prime immagini da cartolina con cui il film si apre (e poi si chiude anche): ovvero una visione estatica del golfo di Sorrento con in sottofondo una smandolinata (seguita poi dall’immancabile That’s Amore servito in dosi da cavallo per tutta la prima parte) come al massimo si poteva vedere e sentire in pagine funestamente rosa del nostro peggior neorealismo degenerato dei tardi anni ’50.
Peccato per la Bier ma soprattutto per Pierce Brosnan e Trine Dyrholm, coppia che si sforza di dimenticare di avere un grande passato alle spalle (lui grande James Bond di cui qui cerca di far sopravvivere la classe e il fascino al tramonto, lei incisiva interprete di pietre miliari della recente cinematografia danese quali il già citato Festen) e che si vede costretta a salvare il salvabile in questa soap dai ritmi televisivi in cui sembra che entrambi si stiano domandando “ma che ci faccio qui”? E di certo non li aiutano né il resto del cast né il doppiaggio della versione italiana: se infatti quest’ultimo è quasi irritante per inadeguatezza, non si può non spendere qualche parola sui due interpreti dei ruoli degli sposi (che purtroppo occupano la maggior parte delle scene della prima e indigeribile parte del film con sequenze degne di entrare negli annali del brutto assoluto): se il giovane Sebastian Jessen ha la stessa espressività di un tronco da bruciare nel camino nel lungo inverno danese, la quasi anoressica Molly Blixt Egeling è così legnosa e inguardabile da scatenare nel pubblico risate del tutto involontarie ogni qualvolta il futuro maritino le sussurra parole melliflue all’orecchio e la guarda come se fosse la donna più bella mai apparsa sul pianeta terra.
Trama
Imprenditore sessantenne lui col cuore ancora ferito dalla morte della moglie rimasta vittima molti anni prima di uno stupido incidente, parrucchiera cinquantenne lei fresca reduce da un cancro che le è costato l’asportazione di un seno ma anche umiliata dal rozzo marito fedifrago che ha scoperto tradirla mentre era impegnata nelle sessioni di chemio, il fascinoso inglese Patrick e la bella danese Ida si incontrano a Sorrento al matrimonio dei rispettivi figli. Alla fine non diventeranno consuoceri, ma si innamoreranno e la vita regalerà loro una seconda chance.
di Redazione