La terra

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rubini-laterra-filmPrima di analizzare l’ultimo film di Sergio Rubini, è bene proporre una premessa che diventa contemporaneamente punto di partenza, fulcro e punto di arrivo di un ragionamento, condensato nel titolo stesso dell’opera: la terra. Proprio perché è questa la vera protagonista della pellicola: il luogo, l’habitat, le coordinate geografiche di una pluralità di vite. Assistiamo in questi ultimi anni alla nascita, ancora piuttosto embrionale in Italia, di un fenomeno chiamato cineturismo, che non rappresenta solo quel possibile punto di convergenza fra opera cinematografica e territorio, stretti nella reciproca influenza e generatori di un imprecisato quanto inspiegabile flusso migratorio turistico. L’ottica con la quale dobbiamo avvicinarci a questo fenomeno è però sicuramente più complesso, perché ci obbliga a raschiare sul fondo dei luoghi, ad agire come catalizzatori di un passato che si è ormai stratificato nella storia.
Il cinema in tutto questo ha sempre cercato di rubarne l’essenza, in maniera fin troppo ossessiva, ricreando, paradossalmente l’aperto nel chiuso, l’esterno nei teatri di posa. Ma oggi le cose sono cambiate perché il luogo non è più l’accessorio del regista, ma il mezzo del suo essere autore. Città, paesi, territori, ora, pretendono di ricoprire un ruolo da protagonista, modulando la vita, gli intrecci e il futuro degli attori e dell’intera processo filmico. Cosa che avviene magistralmente nell’opera più cineturistica mai concepita dal cinema italiano fino ad ora. In fondo Rubini, non tanto come attore, ma come regista, ha sempre cercato di dare spazio allo spazio, innescando dallo stesso, la scintilla con la quale poi i suoi personaggi hanno mosso i primi passi.
Le radici in fondo sono tutte la, presenti, come all’inizio del film quando il professore trapiantato a Milano, Luigi, interpretato da Fabrizio Bentivoglio, scende da quel treno nello sperduto paese di Mesagne e si ritrova circondato dal nulla. Poi, mentre percorre una breve salita, l’incrocio con una macchina. Il primo piano sullo sportello che si apre, due piedi scendono e appare il passato, interpretato, non a caso, dallo stesso Rubini. Ecco è tutto li: la terra brulla, il sole accecante, il calore che sembra devastarti, le canne mosse dal vento. O ancor di più nel rosso accesso del calice di vino che sovrasta la visione dei titoli di testa. Questi sono minuti di vera poesia per raccontare la complicata vicenda di quattro fratelli riuniti nella propria terra per dividersi il podere lasciato dal padre. Certo non proprio per necessità, quanto per interesse egoistico di uno dei fratelli, candidato in una fantomatica lista elettorale e pieno di debiti. Assieme ai suoi fratelli Michele e Mario, eterno studente impegnato nel volontariato, Luigi cerca inutilmente di convincere il fratellastro Aldo, nella vendita di quel lotto che per quest’ultimo è sinonimo di lavoro.
Rubini offre quattro ritratti differenti di terra, di rimodulazione delle origini, di rimpasto geografico. Terra non solo resa oggettiva attraverso i suoi tratti somatici, ma esplicitata dall’interno della sua origine come se essa fosse la madre di tutto. Una storia che nel suo intreccio ingloba temi come la morte, la vendetta, la perdita, il sospetto, la gelosia, la disperazione. Temi che nascondono l’appartenenza di sangue, di origine e di nascita verso una terra, un passato. Ognuno con la propria storia, la vita che si è fino ad allora vissuta, chi con sincerità, affetto, affanno. Ma che ritorna prepotentemente verso un nucleo, chiamiamolo per così dire, magmatico di risoluzione. Alla fine l’atto innescato dalla terra non sarà una rivalsa nei confronti dei figli, quanto una non tanto consolante, riappacificazione delle anime, che pagano alla stessa terra un pesante tributo. Non certo in termini oggettivi, quanto nella totale ammissione delle proprie colpe.


di Davide Zanza
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