Il caimano

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caimano-moretti-filmIl Caimano
Un’analisi di Piero Spila

I bei film non sono moneta di scambio e il vero cinema politico non mostra la politica nel suo farsi (quando capita è solo pornografia) ma offre semmai un punto di vista con cui guardarla. In questo senso Il caimanodi Nanni Moretti è quasi esemplare perché dà per scontati i fenomeni della triste politica italiana degli ultimi anni (lo dice Moretti stesso nel film: “queste cose le sanno tutti”) e li rappresenta invece solo in maniera onirica (i sogni del produttore Bonanno, che vede il leader-imprenditore sfiorato da valigioni pieni di soldi che cadono dal soffitto o a braccetto col furbo finanziere che l’ha preso con le mani nel sacco, mentre intorno festeggiano ballerine e majorettes) oppure in una luce visionaria e apocalittica (il copione della giovane regista che, quando il caimano getta la maschera, affida la resa dei conti finale a un duello in Tribunale, e non a una libera competizione elettorale). Il vero punto di vista politico del film è la contiguità che c’è tra pubblico e privato, tra quel modo di gestire il potere e la condizione in cui si vivono le piccole azioni del quotidiano (il lavoro, i sentimenti, i rapporti con gli altri), ed è la capacità di certi valori malati di avvelenare progressivamente la nostra vita, con la corruzione, la volgarità, l’insicurezza sociale, i tradimenti sentimentali o professionali, l’infelicità.

“Qui abbiamo già perso 20 anni fa”, dice sempre Moretti, e qui davvero il film diventa grandissimo e si riallaccia alla lezione del miglior cinema civile italiano di Rosi e Petri (peraltro molto citati), ma anche, per un certo suo gusto della provocazione e dell’iperbole, alle celebri invettive di Pasolini quando, praticamente da solo, invocava un processo al Palazzo e una sentenza emessa non solo dai tribunali ma dalla pubblica opinione. Moretti è però addirittura più pessimista del Pasolini del 1975, e il suo film più che condannare il Caimano (che si condanna da sé) sembra voler condannare soprattutto l’Italietta che assiste passiva, che si accomoda nelle piccole convenienze, che tradisce e si imbosca. Quell’Italietta che secondo il produttore polacco Sturovsky è sempre a metà strada tra “orrore e folclore”, e che quando tocca il fondo, malgrado tutto continua a scavare, e scava ancora. Non è un caso che stavolta Moretti, politicamente, non se la prende più con la sinistra (è addirittura assente dal film) e finisce il suo apologo, dopo tanti sorrisi, con i toni cupi dell’incubo.

Per il film stilisticamente più maturo della sua carriera, Moretti mette in scena la “terra in trance” che è diventata la società italiana (dove tutto è in crisi: cinema, famiglia, lavoro) e un formidabile “abbecedario” del cinema italiano (generi, caratteri, stili) e dei suoi tic personali (le fobie, i gusti, gli scatti d’umore), governando livelli narrativi e registri espressivi con una regia impeccabile. Emozionante tutta la parte dedicata ai rapporti con i figli, e da antologia la scena in cui sul set, con l’accompagnamento di una musica orientale, viene ricostruita in un delirio di kitch la dimora del Caimano. Il film è così perfetto da accogliere e giustificare anche i momenti di caduta, come ad esempio il concerto all’auditorium, con il protagonista che ad un certo punto irrompe sul palcoscenico e interrompe l’esecuzione. Una scena inaccettabile ma in linea con il gusto e l’estetica di un produttore di trash-movie disperato.
Importante che abbia accettato di partecipare ad un film così importante tanta parte del cinema italiano. Anche questo è un buon segno che dobbiamo a Moretti.

Piero Spila

Temi e ossessionidell’universo Moretti
di Mariella Cruciani

Chi, dopo “La stanza del figlio” (2001) si aspettava da Moretti un film “classico”, con un inizio, uno svolgimento e una conclusione tradizionali, sarà forse rimasto un po’ deluso da Il caimano, ma chi frequenta e apprezza l’universo “morettiano” da sempre, avrà senz’altro riconosciuto e amato, in quest’opera, temi, ossessioni, stati d’animo presenti in tutti i lavori del regista, a partire dai lontani “Io sono un autarchico” (1976) e “Ecce bombo” (1978).
L’ironia che Bruno (Silvio Orlando), il produttore protagonista di Il caimano, utilizza quotidianamente con se stesso e con gli altri è quella di Michele Apicella nei film citati e, forse, non è un caso che uno dei figli di Bruno si chiami Andrea, proprio come il bambino di Michele in Io sono un autarchico.
Che dire, poi, del rapporto di Bruno con Paola (Margherita Buy), la sua ex.moglie? Il simpatico produttore di “Mocassini assassini” e “Stivaloni porcelloni” si inventa sempre di tutto per non lasciarla andare e, quando la vede con un altro, fugge via disperato e soffre, all’idea della separazione, con un’intensità che non ha nulla da invidiare a quella di Michele in Bianca (1984). Se si pensa ai conflitti di Bruno relativi al lavoro, si piomba in pieno Sogni d’Oro (1981): in entrambi in casi, siamo in presenza di un film nel film, lì su Freud, qui su Berlusconi.

Nella pellicola dell’81 era Remo Remotti a interpretare un finto Freud affetto, per primo, dal complesso di Edipo, in quest’ultima opera, invece, Moretti stesso, con un sorprendente colpo di teatro, decide di incarnare il mefistofelico caimano, rendendolo persino più sinistro e ambiguo dell’originale.
La trovata finale è, certamente, la parte più forte e drammaticamente potente del film, ma, a ben guardare, Moretti aveva già fatto qualcosa del genere: aveva, infatti, dato corpo e voce all’altrettanto inquietante, seppur di fantasia, ministro delle Partecipazioni Statali Cesare Botero in Il portaborse (1991) di Daniele Luchetti.

Anche il rigore (Questa bambina come l’avete fatta? Non lo voglio sapere – grida a Teresa/Jasmine Trinca) e la tenerezza (Fino a quando potrò continuare a farvi le coccole? – chiede ai piccoli) con cui Bruno guarda il mondo vengono da lontano: sono gli stessi di Don Giulio di La messa è finita (1985) , del redivivo Apicella in “Palombella Rossa” (1989) e di Moretti stesso in “Caro diario” (1993).

Il caimano non è, come qualcuno ha detto, due pellicole in una, ma molto di più: è la summa dell’intera opera filmica morettiana e la conferma ulteriore che, per un autore che si rispetti, arte e vita sono sempre inscindibili, senza per questo dover cadere nella scorciatoia dell’autobiografia spicciola.
Insomma, Moretti ci regala, ancora una volta, un film sincero, vero, divertente, tenero, coraggioso, appassionato, diverso dagli altri. Come il gelato che difende e di cui va fiero, l’orgoglioso e rigoroso gelataio di una delle sequenze del film.

Mariella Cruciani


di Piero Spila
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