L’ultimo drink
La recensione di L'ultimo drink, di Markus Goller, a cura di Guido Reverdito.
Essere alcolizzati senza averne la consapevolezza. È questa la pericolosa condizione in cui vive Mark, trentacinquenne berlinese che di giorno è un rispettabile capo cantiere edile ma che a fine giornata lavorativa non riesce a limitare il piacere di una birra con gli amici per rilassarsi, finendo ubriaco fradicio insieme a una congrega di sodali col suo stesso vizietto.Tutto filerebbe più o meno liscio in questa dicotomia quasi dissociativa tra giorno e notte, se non fosse che una sera la polizia gli ritira la patente dopo averne rilevato alla guida un tasso alcolemico di gran lunga superiore al tollerabile.
Per poter tornare al volante, deve seguire un corso con tanto di esame medico-psicologico alla fine. Qui ha però la sfortuna di conosce Helena, un’insegnante che diventa una nuova compagna di sbornie (non ostante Mark abbia promesso al fidato amico Nadin di non toccare più un bicchiere fino alla restituzione della patente). Consapevole di dover uscire dal tunnel diabolico in cui è andato a infilarsi, ma soprattutto rendendosi conto di perdere pericolosamente colpi sul lavoro, capisce di dover dare una svolta alla propria vita impegnandosi in un percorso di risanamento interiore per tornare a galla ed essere nuovamente accettabile a livello sociale.
Diretto da Markus Goller, autore anche della sceneggiatura insieme al suo abituale compagno di viaggio Oliver Ziegenbalg (una coppia più che rodata che in Germania ha sbancato i botteghini con Friendship! de 2010 e 25 km/h otto anni dopo, mai distribuiti dalle nostre parti), L’ultimo drink affronta con la chiave della commedia brillante appena sporcata da tocchi agrodolci un tema delicatissimo quale quello dell’abuso di alcol da parte di quella fetta di rispettabile società civile che ormai da anni non sembra in grado di distinguere il rilassamento da happy hour con la dipendenza organica dall’alcol.
E, come già successo per altri loro film del passato, anche in questo caso il duo Goller/Ziegenbalg ha ammesso di aver trasferito sullo schermo esperienze personali realmente vissute (nel caso presente la partecipazione a una cena con amici alla fine della quale erano tutti ubriachi marci pur dovendo lavorare il giorno dopo). Esperienze che vengono però incardinate in solide strutture narrative in cui non c’è alcuna pulsione moralistica di facile condanna: come nel caso presente de L’ultimo drink, dove la storia esemplare del loro Mark diventa una parabola didascalica – raccontata però in maniera oggettiva e priva di prese di posizioni di alcun tipo – sull’incapacità dei giorni nostri di mettere a fuoco l’esistenza di un problema grande come il classico elefante nella stanza senza volerne però ammettere la presenza invasiva nelle nostre vite. A qualcuno potrebbe venire in mente Un altro giro, il bellissimo film di quattro anni or sono con cui Thomas Vinterberg raccontava la discesa agli inferi alcolemici di un professore che decideva di combattere il grigiore esistenziale dandosi a sfrenate bevute coi colleghi. In comune c’è di certo un’euforica perdita di controllo alternata a momenti più dolorosamente intimi che nel film danese sfociavano in un finale carico di gioia costruttiva. L’ultimo drink, meno sfrenato non ostante le molte scene di baldoria che descrivo le notti fuori controllo di Mark e con qualche piccola caduta nel mélo verso il finale, l’inferno dell’alcolismo inconscio lo racconta nella sua presenza subdola nelle vite di tanti come noi, incapaci di uscire da una gabbia di cui non vogliamo ammettere nemmeno l’esistenza. Un po’ come la splendida simbologia dell’uccello sul tavolo di Mark che cerca disperatamente di uscire all’aria aperta senza capire di continuare a sbattere contro il vetro della finestra. Fino a quando Mark lo libera, anticipando simbolicamente la propria liberazione dall’eccessiva confidenza col bicchiere
di Guido Reverdito