L’abbaglio

La recensione di L'abbaglio, di Roberto Andò, a cura di Frédéric Pascali.

I temi legati alla spedizione dei Mille, ai suoi esiti, alle sue connotazioni sociopolitiche, non sono pochi e ancora oggi rappresentano argomento di dibattiti e studi storici. Roberto Andò concentrandosi sulla figura di uno dei protagonisti di quella stagione, il colonello Vincenzo Giordano Orsini, già allievo del Real Collegio della Nunziatella a Napoli con, tra gli altri, i futuri patrioti Carlo Pisacane e Francesco Carrano, imbastisce un racconto che prova a fuggire l’aneddotica per addentrarsi nei meandri più reconditi della Storia.

Lo fa con un cast di notevole rilievo guidato, come ne La Stranezza, da Toni Servillo, Salvo Ficarra e Valentino Picone. Seppur l’amalgama dei tre risulti, anche questa volta, eccellente, la narrazione, tuttavia, non sembra riuscire a trarne il dovuto beneficio. Colpa, probabilmente, di un’impostazione a metà tra il melodramma e lo spaghetti western che non riesce mai ad acquisire una sua identità definita, orientandosi verso una sintesi agiografica più consona a fustigare il presente contemporaneo che a raccontare le trame del passato. Ugo Chiti, Massimo Gaudioso, e lo stesso regista, scrivono di un mondo nel quale le sfumature vengono affidate esclusivamente all’agire dei due personaggi, di pura fantasia, entrambi siciliani ed entrambi, per vari motivi, trasferitisi in Nord Italia, interpretati da Ficarra e Picone.

Alla ricerca di un pretesto per raggiungere la Sicilia, Domenico Tricò, contadino con un’evidente zoppia, e Rosario Spitale, baro professionista, si arruolano nelle truppe di Orsini in partenza da Quarto e sviluppano la loro personale avventura all’interno dell’impresa garibaldina. Antieroi per eccellenza, si confrontano spesso con la tragedia, ne lambiscono i contorni, ne introducono gli aspetti più evidenti, ma ne eludono le profondità restando incassati nella superficie, nel fluire delle apparenze, quelle delle emozioni più note. Del resto, è un po’ questa la dimensione generale di una pellicola, egregiamente fotografata da Maurizio Calvesi, che affronta i tratti siciliani dell’impresa garibaldina del 1860 con il profilo di un memoir vergato in bello stile. Dimessa appare la figura stessa di Garibaldi, quasi fosse uno sfondo necessario, mentre recalcitrano le tracce di una complessità che per intero avvolse, fin dalla sua ideazione, l’intera operazione. Gli inglesi, Crispi, Rose Montmasson, l’ammiraglio Persano, Liborio Romano, Camillo Benso conte di Cavour, sono comparse, rapide citazioni o convitati di pietra, di un album di figurine che alle opache trame preferisce concedere solo sparuti spunti.


di Roberto Andrò
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