Il mio giardino persiano
La recensione di Il mio giardino persiano, di Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha, a cura di Roberto Baldassarre.

In questi ultimi anni per comprendere la difficile e rovinosa realtà sociale dell’Iran, risultano più efficaci i film che le veline giornalistiche. Sono opere, sebbene di diversa caratura, che mostrano con coraggio (gli autori vengono incarcerati oppure banditi dal regime) come lì la vita non sia per nulla facile, e anzi sia molto rischiosa. Una legge islamica che viola sistematicamente i diritti umani e prevarica soprattutto le donne, come rilevano i report annuali di Amnesty International. Una legge che si basa sulla Sharia che non disdegna nemmeno l’arcaica lapidazione se una donna ha commesso un umano adulterio. Una panoramica sull’oscurantismo iraniano ci era stata data dall’episodico Il male non esiste (Sheytān vojud nadārad) di Mohammad Rasoulof, e prima ancora dal “clandestino” Taxi Teheran (2015) di Jafar Panahi.
A questi, e altri sguardi cinematografici sulla situazione odierna in Iran, si sono aggiunti in questo ultimo anno gli efficaci Tatami – Una donna in lotta per la libertà (Tatami, 2023) di Guy Nattiv e Zar Amir Ebrahimi e Leggere Lolita a Teheran (Reading Lolita in Teheran, 2024) di Eran Riklis, e tratto dall’omonimo romanzo biografico di Azar Nafisi. A queste due pellicole, e andando quasi a creare una trilogia femminile, si aggiunge ora Il mio giardino persiano (Keyk-e mahbub-e man, 2024) di Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha. Anch’esso un terso quanto preoccupante sguardo sulla scoraggiante realtà iraniana, con la differenza che il registro prescelto è quello della commedia.
Una storia fittizia – ma sempre radicata nel reale –incentrata sull’anziana vedova Mahin, che cerca soltanto una relazione sentimentale per colmare la sua solitudine. La sua è una semplice necessità umana, di amore, che però nell’Iran non è moralmente accettata. È sufficiente che una vicina di casa, di ferrea credenza islamica, sparga la voce che ha ospitato in casa un uomo, e su Mahin cadrebbe l’onta della vergogna. Ma questa è soltanto una piccola e “innocua” annotazione sulla situazione iraniana, perché la stilettata politica, messa in evidenza dai due autori (a cui il regime ha sequestrato il passaporto precludendogli la possibilità di accompagnare il film alla Berlinale), si manifesta nella sequenza del parco. Nel soave e mesto registro della commedia, entra con irruenza la realtà. Una ragazza viene quasi arrestata con impeto, rea soltanto di non portare in modo corretto l’hijab, e di aver baciato il proprio fidanzato in un parco pubblico.
Mahin, sebbene sia anziana e non sia una pasionaria, vede in quella prevaricazione non soltanto un eccesso di zelo religioso, ma il privare a una donna la libertà di amare. Mahin, pertanto, è testimone di questi soprusi odierni, ma al contempo memoria storica della lontana – e nefasta – rivoluzione islamica del 1979, che invece di portare benefici, portò regresso culturale e umanitario nell’Iran. A questo momento prettamente di denuncia, accentuato dall’uso della MDP a spalla (desunto dallo stile documentaristico) si aggiunge poi l’inaspettato finale, che scardina quel ritmo placido e quasi da Rom-Com, come ben sottolinea il titolo originale, da dolce commedia culinaria. La beffarda chiusa de Il mio giardino persiano, è come se confermasse che a tutt’oggi non ci può essere un Happy End nell’Iran.

di Roberto Baldassarre