Il favoloso mondo di Amelie

il favoloso mondo di amelie

il favoloso mondo di amelieJean Pierre Jeunet (conosciuto in Italia per il bizzarro Delicatessen-1990, girato in collaborazione con Marc Caro) è uno di quei registi che amano raccontare storie seguendo più i canoni dell’immaginazione che del realismo, ricorrendo perfino ad effetti che potremmo definire “disneyani”. In tal senso ci rammenta un altro regista, l’americano di origine inglese Terry Gilliam (ma se si tenta un confronto fra questa Amelie con il suo La leggenda del re pescatore-1991 si dovrà pur riconoscere al secondo ben altra coerenza nel difficile equilibrio fra apparati della fantasia, meglio identificabile col mito, e le istanze del cosiddetto realismo urbano).
Nel film di Jeunet quasi tutto suona falso, ossia visto da un filtro (come una pozione magica intesa anche come destino ultimo del cinema?) che, attraverso il gusto e la pratica del racconto vecchio stile alla francese (il cosiddetto cinema di papà), rimescola le carte della realtà secondo un ordine prestabilito che risponde all’idea di vita semplice regolata dal buon senso e dalle piccole gioie e dolori quotidiani. Lo testimoniano la natura dei personaggi che si muovono intorno alla protagonista e sullo sfondo; logore ma simpatiche figurine chiuse in bozzetti consolatori come il vecchio pittore dalle ossa fragili come il cristallo che non riesce a completare la figura femminile di un quadro in cui Amelie subito si identifica (affermando così il solito contrappunto tra realtà e finzione), il verduraio petulante e il suo servo sciocco, la sigaraia che attende l’uomo che si innamori di lei, oltre agli immancabili ritrattini da bar, e infine la goffa portinaia che sogna che dopo trent’anni il marito, che l’aveva lasciata, ritorni da lei.

Ma ecco emergere dal racconto una contraddizione: se i personaggi di contorno parlano appunto il linguaggio di vecchie cartoline in bianco e nero, quello di Amelie e del giovane innamorato (Kassowitz) pretendono a buon titolo di imporsi come modello di realtà contemporanea colta nel suo farsi racconto urbano. E forse tale schizofrenia di intonazione post-moderna ci appare tuttavia il solo elemento originale, sia pur discutibile e discontinuo, sia sul piano narrativo che estetico. In questo straripante calderone le cadute nel kitsch non si contano; ma non importa, tutto serve a recitare la vecchia morale dell’amore e del buoni sentimenti senza i quali nulla al mondo è buono!… Amelie deve essere ad ogni costo una ragazza di oggi, bella, timida, un po’ vigliacca, ma anche maliziosa e segretamente intraprendente nel riuscire ogni volta ad aiutare il prossimo bisognoso o anche a punire i “cattivi” (il verduraio) introducendo nella loro piccola esistenza un elemento che dà loro un po’ di conforto e fiducia nella vita. Niente di più ovvio e già visto. Ma al tempo stesso è colei che cerca disperatamente come ogni donna, l’eterno amore (come recita il finale alla Lelouch). Così è per il protagonista maschile, che pur presentandosi come figura curiosa (colleziona foto tessere strappate e lavora in uno sexy-shop) finisce per essere un buon ragazzo come tanti. Anche ad una lettura critica del paesaggio urbano parigino emerge la medesima schizofrenia: c’è una Parigi pittoresca (fotografata con forzature cromatiche) che in certe inquadrature vuole sembrare perfino Praga vista dal Castello. La Parigi dei luna park di Montmartre e degli organetti cara al binomio Carné-Prevert e c’è invece l’altra Parigi, anonima, distratta della Villette o del Metrò, di bessoniana memoria.

Ad una narrazione che procede per accumulo di trovate e di stratagemmi (messi in atto dalla protagonista), sovente di una puerilità bamboccesca (ma con qualche eccezione nel pedinamento o, se si vuole, nell’ipotesi esistenziale intorno al mistero dell’uomo delle fotografie la cui risoluzione finale suggerisce il ricordo ad una dimensione realistica subito però contraddetta da ciò che segue e che la precede), corrisponde una regia esagitata che per sembrare (questa si) moderna, fa ampio abuso di dolly, carrelli, grandangoli ed effetti sonori in una inarrestabile horror vacui, e con vanagloriosa ostentazione (ma dov’è la vera poesia?) mescola il sogno del buon tempo andato (ma nella finzione più vivo che mai) con le incertezze di un presente volutamente “illeggibile”, acefalo, che comunque il regista si rifiuta programmaticamente di comprendere, poiché segnato dal solo interrogativo rimasto nel deserto delle idee, quello dell’amore come rimedio alla vita stessa.

Maurizio Fantoni Minnela

Note critichedi Mariella Cruciani

Il favoloso mondo di Amelie non è affatto, come si potrebbe pensare, un film furbo o stucchevole: si tratta, invece, di un’operina delicata, allegra, colorata.Come la sua protagonista: la tenera Amelie.
Sopravvissuta, da bambina, ad un padre che scambia la sua emozione per il contatto con lui per un problema cardiaco e ad una madre dura e severa, provvidenzialmente tolta di mezzo da una turista suicida, Amelie, ormai adulta, è assolutamente incapace di prendersi cura di sé e regalarsi delle cose buone.
Viceversa, tutte le sue energie sono indirizzate a rendere felici gli altri: come una fata delle fiabe, il personaggio del film di Jeunet si prodiga per combinare unioni sentimentali, riscattare i deboli, consolare gli afflitti.

Una trama del genere nelle mani di un altro regista avrebbe potuto dar luogo ad una pellicola finta e mielosa: Jeunet, invece, scampa alla trappola del sentimentalismo facile e a buon mercato grazie ad una salutare ironia.
Vediamo, così, la stessa Amelie commuoversi di fronte alle sequenze di un telegiornale immaginario che mostra la sua morte e celebra la sua sospetta bontà.
Occuparsi ossessivamente degli altri è, infatti, il metodo che Amelie usa per non fare i conti con la sua paura della realtà e dei sentimenti. Prima della fatale conoscenza con il ragazzo del sexy-shop, Amelie vive in un universo tutto suo, in cui domina, incontrastato, il principio di piacere e in cui ogni ingiustizia, o problema, viene quasi magicamente risolto.

In un mondo del genere, un riparatore di macchinette per fotografie diventa, facilmente, un morto che non vuole cedere all’oblio… Quando, finalmente, la realtà si afferma, Amelie comincia a temere di essere coinvolta in prima persona ma l’attrazione per il giovane sconosciuto, perfetto suo alter ego, ha, infine, la meglio su ogni esitazione.La fiaba non può che concludersi con il classico “e vissero felici e contenti”.
In definitiva, si tratta di un film che fa della leggerezza il suo punto di forza: l’unico neo di questa originale pellicola risiede, forse, nell’attenzione eccessiva al look iper-curato di Amelie, che sciupa, un po’, il candore e l’autenticità del personaggio.


di Maurizio Fantoni Minnella
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