Glory Hole
La recensione di Glory Hole, di Romano Montesarchio, a cura di Emanuele Di Nicola.

Glory Hole inizia totalmente in fieri, nel cuore dell’azione: c’è un uomo che si nasconde nella sua stessa casa, dentro un anfratto, e organizza una fuga precipitosa. Grazie a due complici, un prete in crisi e il proprietario di un night club, viene portato a rifugiarsi in un bunker sotterraneo. Gli aiutanti chiudono la porta e lo lasciano nelle segrete. L’uomo in fuga è Silvestro (un ottimo Francesco Di Leva), protagonista del film di Romano Montesarchio, regista di Caserta, classe ‘73, un outsider nella medietà generalizzata del cinema italiano commerciale. Il film va in sala il 18 luglio, in piena estate, eppure merita una visita. Chi è davvero Silvestro, perché si nasconde e da cosa sta scappando lo scopriamo nello sviluppo graduale, nello spazio di 95 minuti che servono a creare un thriller duro, compatto, cattivo.
La verità sul personaggio si apprende in flashback. Egli, mentre aspetta la libertà o la fine, ricorda: la lunga attività criminale come colletto bianco della camorra, che si inceppa quando in una cerimonia incrocia lo sguardo della giovane Alba (Mariacarla Casillo), la figlia del boss per cui lavora. Ma uno sgherro, ovvio, non può certo avvicinare la prole del capo. Tra i due inizia una storia passionale, fatta di incontri sessuali, che gradualmente diventa più impegnativa…
Il punto del racconto però è un altro: lo sguardo aderisce al Silvestro di oggi, alla sua prospettiva, ed eccoci rinchiusi con lui all’interno del bunker. Con le necessità concrete (mangiare, pippare) e con la resa dei conti mentale col passato e la propria coscienza. Qui la realtà si mescola alla fantasia dell’uomo, secondo un meccanismo tipico ma portato avanti con notevole lucidità, senza mai perdere la briglia del personaggio e della parabola, anzi allestendo un crescendo memorabile sino alla rivelazione finale. E qui, per una volta, il colpo di scena è davvero tale e spalanca le porte dell’abisso.
Glory Hole sbriciola la retorica del cinema gomorriano, del solito film sulla camorra. Così il regista: “Volevo abbandonare i sentieri più battuti della narrazione criminale del Sud Italia (…). Non è sulle dinamiche criminali che si concentra il film, bensì sui sogni e le visioni del protagonista, immergendosi nell’oscurità del luogo in cui è costretto a rinchiudersi”. L’obiettivo è pienamente raggiunto.

di Emanuele Di Nicola