Giovani si diventa
Chi incontrasse anche per caso Josh e Cornelia penserebbe a loro come alla coppia perfetta. Quarant’anni, una bella casa nella parte chic di Brooklyn, entrambi attivamente coinvolti nel mondo della produzione cinematografica, una cerchia di amici sufficientemente colti per condividere con loro passioni ad elevato tasso intellettuale e soprattutto quell’agiatezza che permette di godersi l’esistenza senza doversi mai preoccupare del domani.
Ma scavando un po’ sotto la superficie ingannevole della facciata, un attento osservatore capirebbe che le cose non stanno così: ex enfant prodige della documentaristica, Josh è invischiato da anni nella realizzazione di un documentario di lunghezza fluviale nel quale vorrebbe smascherare tutto il marcio che si annida nel cuore di tenebra dell’America che regge le fila del teatrino sociale. E in questo momento di evidente impasse creativa di certo non lo aiuta il fatto che il suocero — cui il mondo del cinema che conta sta per tributare un omaggio alla carriera in pompa magna — sia un grosso nome nello stesso genere in cui lui vorrebbe eccellere.
Lo stesso si può dire della bella moglie Cornelia: anche se figlia di tanto padre e produttrice cinematografica di relativo successo, ha i suoi begli scheletri nascosti nell’arcinoto armadio delle cose che non si vogliono né si possono rivelare. Da anni sta infatti cercando di rimanere incinta senza però mai riuscirci. Quando facciamo la sua conoscenza, è lei stessa a comunicare al marito la decisione solenne di non voler più effettuare alcun tentativo di rimanere incinta, evitando così di sottoporsi alle torture terapeutiche cui si è sottoposta per anni nel vano tentativo di avere un bambino.
Dopo aver presentato allo spettatore due dei quattro protagonisti del film svelandone in maniera anche piuttosto brutale i lati oscuri che un osservatore neutrale non sarebbe in grado di vedere, la sceneggiatura offre loro l’inattesa chance di uscire dall’impiccio esistenziale in cui si trovano imbrigliati, trovando nuovi stimoli per ricominciare da capo e combattere quel senso di pre-senescenza che, per motivi molto diversi, sembra aver attanagliato i due componenti della coppia felice soltanto in apparenza.
Al termine di una conferenza nella quale è stato invitato a parlare del proprio lavoro, Josh conosce «per puro caso» (e soltanto la seconda parte del lungometraggio permetterà di capire quanto poco casuale sia invece l’incontro) Jamie e Darby, una coppia di hipster venticinquenni che sembrano l’esatto opposto di una coppia al capolinea. Giovani e figli di quella cultura alternativa che dagli anni ’70 ha trovato nel quartiere di Williamsburg la culla ideale per far fiorire la nascita nella Grande Mela di molte delle tendenze modaiole che hanno dettato legge negli ultimi trent’anni, Jamie e Darby sembrano la miracolosa propoli umana di cui Josh e Cronelia avevano bisogno per rifiorire.
Adoratori di tutto ciò che è vintage sia nel vestire che soprattutto nella tecnologia (detestano l’efficienza dei dispositivi Apple, adorati invece dal duo mainstream Josh-Cornelia), nei mezzi di trasporto e nel modo di stare al mondo, i due hipster stregano i due più navigati quarantenni che ci mettono pochissimo a invaghirsi della gioia di vivere e dell’apparente approccio alternativo all’esistenza di cui sembrano essere paladini i nuovi amici.
Invaghitisi di questa per loro inedita forma di vedere la vita (anche se è soprattutto Josh, il più in crisi della coppia navigata, a lasciarsi trascinare dal vortice dell’innamoramento intellettuale), i due quarantenni ai ferri corti con l’esistenza ci metteranno quasi tutto il film per capire quanto il mondo di Jamie e Darby sia invece pura paccottiglia impacchettata in carta di raro pregio al fondo della quale c’è soltanto la nullità di un vuoto pneumatico che è il tratto peculiare di una generazione — quella dei trentenni di oggi — capace unicamente di nascondere la propria inadeguatezza dietro una facciata farcita di specchietti per le allodole.
Chi conosce e ama il cinema di Noah Baumbach — raffinato cineasta newyorkese figlio di due celebri critici cinematografici e cresciuto a pane cinema sin dai primi anni dell’infanzia — sa bene cosa ci si deve aspettare da lui. Ovvero da un regista-autore (sue alcune sceneggiature dei film dell’amico e sodale Wes Anderson) che fin dai primi titoli si è subito presentato come un cantore dolente e in minore del privilegio di essere wasp in contesti molto particolari come quello parzialmente autobiografico della New York colta e snobisticamente intellettuale che è poi il microcosmo antropologico ed esistenziale su cui vengono proiettate la maggior parte delle sue vicende.
Non è quindi una sorpresa se anche questo Giovani si diventa riproponga almeno in parte lo stesso tipo di tematiche. Come già in passato, anche qui infatti uno degli aspetti tematicamente più rilevanti è il confronto-scontro tra generazioni. Ma con una novità di non irrilevante spessore dal punto di vista della prospettiva scelta per mettere in scena un conflitto fin troppo abusato al cinema: Baumbach opta infatti per il ruolo dell’osservatore neutrale, senza risparmiare frecciate al vetriolo a entrambe le fasce generazionali che sono al centro della vicenda raccontata dal film.
Se infatti il duo Josh-Cornelia viene messo alla berlina come rappresentazione quasi antonomastica di quella stessa New York superficialmente intellettualoide e compulsivamente engagé in cui il regista è cresciuto e vissuto, non si può certo dire che sia tanto più tenero con i giovani hipster che si presentano sin da subito come gli strenui paladini di un approccio alternativo all’esistenza, rivelandosi però nella seconda parte per quello che sono: ovvero degli opportunisti ancora più marci e compromessi di quanto non siano gli «integrati» che intendono programmaticamente sbugiardare come portatori di falsi valori.
A conferma di questa posizione di osservatore neutrale che Baumbach si auto-attribuisce per evitare di interferire più di tanto nei comportamenti e nelle scelte dei suoi personaggi c’è poi la scelta di chiamare in causa una terza fascia generazionale da contrapporre ai quarantacinquenni in crisi e ai venticinquenni arroganti e convinti di essere i portatori sani di un virus da cui tutti dovrebbero essere contagiati: il padre di Cornelia (interpretato da un magnifico Charles Grodin, tornato sulle scene dopo anni di volontario esilio) è infatti il rappresentante di quegli over settantacinquenni che hanno improntato la propria intera esistenza sul fare senza mai lasciarsi sedurre dalle sirene delle apparenze che tanto successo sembrano aver avuto con entrambe le generazioni successive alle sua.
Attento com’è sempre alla stratificazione di tematiche condensabili nella stessa sceneggiatura, Baumbach non si lascia però scappare l’opportunità di parlare anche di altro mentre allestisce questa batracomiomachia tra generazioni. Grazie al pretesto del film che il giovane Darby sta cercando di realizzare e per il quale chiede aiuto al più navigato Josh, c’è infatti l’occasione non solo di parlare in termini molto critici della scellerata guerra in Afghanistan ma anche dell’impasse esistenziale in cui si precipita quando si scopre di essere privi di talento e del senso (etico ed estetico) di fare cinema nell’era super free del digitale.
Scritto con l’occhio alle grandi commedie umane del cinema americano degli anni ’70 (di cui il personaggio interpretato da Charles Grodin è una sorta di vessillifero in absentia), quelle per intenderci scritte e dirette da grandi nomi quali Hal Ashby, Mike Nichols e Sidney Pollack, Giovani si diventa palesa però un tratto tipico del cinema di Baumbach che discende in maniera diretta dalla sua passione per la filmografia di Woody Allen e che non per tutti è necessariamente un titolo di merito: ovvero la presenza ipertrofica del dialogo che domina incontrastato tutto il film relegando le immagini a un ruolo di gregariato a tratti quasi intollerabile.
Se il cast di assoluto prestigio la dice lunga del ruolo che Baumbach si è ormai riuscito a ritagliare nel cinema della costa est e fuori dal detestato chiasso gossipparo di Holliwood, va detto che un merito sicuro — tra i molti che gli appassionati del suo cinema gli potrebbero sicuramente ascrivere — questo film ce l’ha: ovvero l’aver regalato a Ben Stiller l’opportunità di far capire a tutti di non essere soltanto un comico mancato capace solo di avere successo oltreoceano in commediole per bambinoni cresciuti poco e male (vedasi la serie delle notti al museo, tanto per fare un esempio).
Il suo Josh è un antieroe così genuinamente crepuscolare e malinconico da riassumere in se stesso tutti quegli infiniti «noi» che combattono ogni giorno con la consapevolezza della mediocrità, certi come sono di non poter mai andare aldilà della sopravvalutazione di cui sono stati vittime, vuoi per l’ambiente iper protettivo in cui sono cresciuti, o vuoi ancora per qualche fatua scintilla fatta scaturire in un lontano passato e mai convertita in un vero fuoco capace di durare nel tempo.
Trama
Josh e Cornelia, agiati quarantenni newyorkesi attivi nel mondo dei media e della produzione, sentono di essere arrivati a un momento critico sia sul piano professionale che su quello di coppia. Quando incontrano per caso Jamie e Darby, due hipster molto più giovani di loro ma carichi di energia creativa e vitalità esistenziale, credono di aver trovato la medicina per curare la propria apatia. Ma si renderanno conto loro malgrado di aver preso una cantonata colossale.
di Redazione