Storie di erbe fluttuanti. Yasujirō Ozu torna al cinema.


Per quanto in un panorama contemporaneo sterile e tendenzialmente vacuo sia facile scivolare nel cinismo più bieco, è giusto e doveroso rammentare come esistano ancora eventi che possono contribuire a mutare le abitudini culturali di una popolazione, o per lo meno di una parte di essa. Quando un paio di anni or sono tornò nelle sale italiane To Be or Not to Be, vale a dire Vogliamo vivere, grazie all’iniziativa della Teodora, non furono in pochi a rimanere sorpresi dal clamoroso successo di pubblico che arrise al capolavoro di Ernst Lubitsch.
L’Italia cinefila, assonnata e spesso distratta quando si tratta di confrontarsi con l’attuale, ha dimostrato di reagire con una solerzia inaspettata di fronte al recupero dei classici del passato. A rincarare la dose, tralasciando le uscite di un giorno atte a promuovere anniversari di vario tipo, sono arrivate le iniziative della Cineteca di Bologna, che ha promosso in sala la riedizione digitale di film tra gli altri di Alfred Hitchcock, Mario Monicelli, Marcel Carné.
Non giunge dunque nuova la scelta della Tucker Film di portare in giro per l’Italia, durante l’afosa estate del 2015, sei titoli restaurati della filmografia di Yasujirō Ozu. Almeno così potrebbe sembrare a uno sguardo disattento… Il progetto della friulana Tucker, grazie al quale il pubblico italiano potrà confrontarsi per la prima volta sul grande schermo con Tarda primavera (Banshun, 1949), Viaggio a Tokyo (Tokyo monogatari, 1953), Fiori d’equinozio (Higanbana, 1958), Buon giorno (Ohayo, 1959), Tardo autunno (Akibiyori, 1960) e Il gusto del saké (Sanma no aji, 1962), compie un passo avanti decisivo, e finora mai osato: proporre al pubblico un’offerta retrospettiva su opere che non fanno parte della memoria cinefila collettiva. Non i grandi classici hollywoodiani, con cui anche il più refrattario degli spettatori mantiene un tramite per quanto labile attraverso i passaggi televisivi, le vhs, i racconti di genitori e nonni; e neanche i nomi abituali della commedia all’italiana, del neorealismo o del cinema d’autore europeo. Yasujirō Ozu, maestro riconosciuto a livello mondiale, è un nome che dice poco, pochissimo, a chi non appartiene alla schiera degli addetti ai lavori o alla cerchia degli appassionati cultori della Settima Arte. Perfino un buon numero di studiosi del cinema dimostra una scarsa dimestichezza con i titoli che esulano da capolavori conclamati come Viaggio a Tokyo.

Ozu, spesso citato in un ipotetico triangolo (inevitabilmente scaleno, per anagrafe e per svolgimento della carriera) con Kenji Mizoguchi e Akira Kurosawa, è tra i padri del cinema giapponese venerato quanto dimenticato. Dopo la morte, avvenuta nel dicembre del 1963 il giorno del suo sessantesimo compleanno, la figura di Ozu è stata sacralizzata in fretta e furia per potersene sbarazzare con maggior facilità. Relegato in un cantuccio, in parte alla stregua di quanto accaduto con Keisuke Kinoshita e Mikio Naruse (entrambi comunque assai meno noti e studiati al di fuori del territorio giapponese), Ozu è diventato oggetto di studio prima ancora che di diffusione. Un errore tragico, scelta smentita da uno qualsiasi dei film che si potranno recuperare in sala con la Tucker. Rispetto a quanto è stato affermato per anni, Ozu è stato un cineasta di una modernità assoluta e spiazzante; ha raccontato il Giappone con uno sguardo mai accomodato, mai prono di fronte alle esigenze del potere (una ventina delle sue regie si sviluppò nel periodo del cosiddetto “Tennosei-fashizumu”, il fascismo del sistema imperiale, vale a dire il regime militare che governò il Giappone dai primi anni dell’era Shōwa di Hirohito fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale), e lo ha fatto scegliendo un punto di vista angolare, geometrico ma mai disumano.
La celeberrima posizione della macchina da presa ad altezza tatami, punto di partenza per molti nell’approccio al cinema di Ozu, è una dimostrazione d’intenti che non riguarda solo la decisione di elidere il climax emotivo dalla narrazione per immagini. È anche e soprattutto una scelta di campo per quel che concerne il modo in cui l’umano deve prendere corpo e vita sullo schermo. La macchina da presa di Ozu guarda il mondo da una posizione statica, perché è il mondo stesso a essere eterno movimento. L’umanità che Ozu racconta con partecipazione è parte integrante di un movimento perpetuo che non ha bisogno di ulteriori sottolineature. Il movimento di macchina, sempre parcellizzato all’interno della sua filmografia, si dirada con l’incedere dell’età, per essere completamente annullato nell’ultima parte della carriera, che comprende gli unici film girati con pellicola a colori (sei titoli, da Fiori d’equinozio a Il gusto del saké); una scelta inevitabile, perché lo sguardo di Ozu si è fatto via via sempre più preciso, pulito, privo della benché minima grinza. La metrica del suo montaggio, l’utilizzo illuminato e rivoluzionario dell’ellisse narrativa, l’edificazione di uno sguardo che sappia “montare” all’interno del piano sequenza a macchina fissa, raggiungono una perfezione che non ha molti eguali nell’intera storia del cinema. Un’urgenza, quella di un’asciuttezza narrativa (e immaginifica) sempre più evidente, che è possibile cogliere in particolar modo, tra i film scelti dalla Tucker, in Buon giorno. Parziale auto-remake di Sono nato, ma…, puro gioiello che Ozu diresse nel 1932, Buon giorno rimarca la nettezza del cinema di Ozu fin dalla sua sinossi: nel riproporre sullo schermo un film prodotto nel periodo del muto – il cinema sonoro per Ozu inizia “solo” nel 1936, con Figlio unico (Hitori musuko) – il regista nipponico concentra l’attenzione su uno sciopero del silenzio indetto da due fratellini, che pretendono che i genitori acquistino un televisore. Il moderno irrompe, come sempre in Ozu, a dimostrare la mutevolezza irrefrenabile dei destini umani: Buon giorno è una commedia limpida e dominata da una levità salvifica, ma un discorso non dissimile sarebbe opportuno affrontarlo tanto per Tarda primavera quanto per il dramma familiare che domina Viaggio a Tokyo. La pudicizia dello sguardo di Ozu lascia spesso nel fuori campo o nelle intersezioni di montaggio, l’epicentro del dramma quanto della commedia, ma proprio per questo ciò che rimane sullo schermo, nella sua assoluta essenzialità, raggiunge una potenza espressiva che annichilisce lo spettatore, coinvolgendolo fino alle lacrime o alle risate. La vita che prorompe dalle immagini dei film di Ozu non ha bisogno di artifici; le basta uno sguardo in macchina, un campo lungo, l’inquadratura di una famiglia in un interno, per trovare le chiavi in grado di smontare lo scrigno in cui ogni spettatore, anche il più ingenuo, a chiuso a tripla mandata i propri sentimenti. Riscoprire, a oltre cinquant’anni dalla morte, il cinema di Yasujirō Ozu è un piacere difficile da descrivere a parole. Perdere quest’occasione sarebbe delittuoso. Sacrilego, direbbero alcuni…
di Raffaele Meale