Dogville

Scrive Proust nella Recherche che, ad un certo punto della vita, alcuni uomini (e donne) mostrano una natura opposta rispetto a quella rivelata fino a quel momento e, per far capire con un’immagine cosa intende, fa l’esempio di un guanto rovesciato. E’ esattamente l’impressione che evoca nello spettatore Grace (Nicole Kidman), l’eroina di Dogville, nell’ultima parte del film. La ragazza, dopo aver subito stoicamente violenze e soprusi di ogni tipo dalla piccola comunità di Dogville, improvvisamente, dopo l’incontro con il Padre ritrovato, capisce che è giunta l’ora di pareggiare i conti, senza pietà.
Se la timida Bess di Le onde del destino e il personaggio interpretato da Bjork in Dancer in the dark rappresentano l’incarnazione del sacrificio assoluto e incondizionato, Grace segna, senz’altro, un punto di rottura nel percorso artistico e umano del regista danese. Non è materialmente possibile vivere senza difese, trovando giustificazioni, nel loro precedente vissuto, alle malefatte altrui: il prossimo, anziché apprezzare e ricambiare, si convince di essere in presenza di una persona debole e arrendevole, da manipolare a piacimento. E’ quanto accade a Grace che, in fuga dal Padre e da qualsiasi forma di Autorità, prova a entrare in contatto con gli altri, contando sulla loro sensibilità e buonafede. Comportandosi così non fa che farsi male e, probabilmente, farlo anche agli altri: in una sequenza significativa il piccolo Giasone pretende di essere punito con delle sonore sculacciate e si lamenta perché Grace si rifiuta di farlo.
Alla fine, però, anche la dolce Grace impara la lezione e l’applica con lo zelo e la soddisfazione del neofita: dopo aver fatto uccidere dagli uomini del Padre buona parte degli abitanti di Dogville, decide di eliminare personalmente, sparandogli alle tempie, il giovane filosofo Tom, vero responsabile dell’intera situazione. Naturalmente, come sempre, Lars Von Trier non risparmia ironia e sarcasmo, soprattutto nei confronti dell’ambiguo filosofo, forse una sorta di alter-ego, sempre alle prese con complicatissime questioni morali e incapace di vivere e di amare. Battute a parte, però, Dogville è, nella forma e nella sostanza, un film spoglio, disincantato, senza orpelli, amaro e che sembra far sua la posizione di Beckett in Com’è: – delle due cose l’una, la si ferma all’epoca delle coppie e in questo caso una metà di noi in perpetuo carnefici vittime in perpetuo l’altra.- Se le cose stanno così, non resta che scegliersi bene la propria vittima….!
Note critiche
di Maurizio Fantoni Minnella
Non era improbabile che l’eclettico e in fondo conservatore Lars Von Trier, avrebbe abbandonato definitivamente le asprezze del “Dogma”, che, a ben guardare non aveva nulla di sperimentale né di nuovo in quanto già affrontato in passato da altri autori senza “necessità dogmatiche”, per approdare ad una formula stilistica che già Reiner Werner Fassbinder, in alcune sue opere aveva approfondito sul filo di una ben più spiccata e sofferta modernità. Stiamo parlando di una struttura preminentemente teatrale, al limite dell’astrazione scenografica, mescolata alla presunta letterarietà di una voce off che narra appunto il “romanzo” di una giovane donna, sfuggita ad alcuni gangsters e in seguito caduta nelle grinfie crudelmente ipocrite di un paese bigotto nel cuore degli Stati Uniti, al tempo della Grande Depressione.
Vi è subito da notare che se il plot narrativo è racconto del più tradizionale realismo americano, questo non si integra affatto nella dimensione stilizzata della messinscena dove tuttavia ci riserva robusti movimenti di macchina squisitamente cinematografici. Ciò induce a supporre che il regista cerchi l’arbitrio dell’artificio laddove forse vi sia la necessità di un diverso trattamento. Ma tale ambiguità è paragonabile solo all’afflato religioso in cui il regista danese immerge la rappresentazione, riservandoci un finale a sorpresa: l’angelo della dolcezza che si era dunque sottomesso ad ogni sorta di brutalità e di tradimento, si trasforma in angelo vendicatore, non appena viene per la prima volta nominata la parola potere. Con l’investitura ottenuta dal gangster-padre essa potrà condurre a termine la sua vendetta, ossia ordinare che il villaggio venga messo a ferro e a fuoco. Così si compie anche l’ennesimo apologo didattico di stampo brechtiano sui vizi dei piccoli uomini che popolano la grande terra dove non esistono né creature innocenti né profeti ad eccezione del cane del titolo, il solo che sopravviva alla furia vendicatrice.
A tanto nihilismo così sapientemente ostentato, corrisponde nel finale il gesto autoironico (anche attraverso il contrappunto sonoro), di chi, mostrando fotogrammi in bianco e nero di disperazione sottoproletaria e di negritudine oppressa, voglia in fondo distinguere i vivi dai morti. Ripresi dall’altro, essi dunque sembrano davvero figurette di un gioco di società o di un monopoli (riferimento ludico quasi obbligato), sulle cui caselle-casette cui si scaglia il furore iconoclasta di un cinesta che brechtiano non è, tuttavia è forse da questa ennesima contraddizione che scaturisce il fascino sgangherato ed insieme perverso del film.
di Mariella Cruciani