Kill Bill – Volume 1
Tarantino opera una torsione nell’universo cinematografico, facendo scorrere lungo la stessa serie, senza soluzione di continuità, lo spaghetti-western d’autore, il cinema di Hong Kong, quello giapponese dei gangster movie ‘alla yakuza’, il kung-fu movie anni ’60 e ’70, includendo anche fumetti e cartoon di genere (anima) ed ammiccando all’immaginario dei videogiochi e di certe produzioni televisive.
In realtà non è Tarantino ad attuare la contaminazione, le connessioni esistono di già, a questo livello egli opera una sorta di ‘controllo debole’, si tratta di far agire delle ‘regole minime’, l’intreccio, per esempio, è di per sé emblematicamente essenziale, funzionante ad un livello minimo ma in maniera molto forte, offesa-vendetta, vittima-carnefice, oppure lo stesso costante riferimento ad altro cinema, se da una parte arricchisce di senso la narrazione, dall’altra la svincola proprio dalla derivazione di un senso. È a questo livello che Tarantino attua la vera e propria de-formazione artistica, con la pratica dell’eccesso e del ‘surriscaldamento’, su un piano squisitamente estetico. Riusciamo a sentire dettagliatamente tutti i rumori violenti e di scontro, il sangue che fiotta, le teste che si fracassano, le lame che attraversano la carne e poi il loro sibilare nell’aria, così come vediamo queste stesse lame (katane) attraversare tutto il campo visivo da molteplici angolazioni, la palla ferrata rimbalzare dappertutto, i proiettili uscire dalla canna, frontali o in soggettiva, e trapassare le vittime. Qui il controllo ottico-sonoro di Tarantino è totale, siamo noi a perderlo, non controlliamo più le velocità, accelerazioni, dilatazioni temporali e ralenti, le sospensioni a mezz’aria e le vertigini dell’equilibrio (soprattutto nei duelli), i colori che ‘smarginano’ e la violenza cromatica ad alto contrasto che precipita spesso nel bianco e nero come per un sovraccarico energetico, la sonorizzazione dettagliata e straniante a un tempo- sentiamo tutto anche ciò che non si sente, vediamo tutto anche ciò che non si vede- infine la destrutturazione della linearità narrativa e il convergere a livello cinematografico delle diverse istanze dell’immagine (fumetto, tv, videogioco…).
Un cinema iper. Certo fortemente ‘crudele’, ma non a livello della narrazione, in cui la crudeltà e la violenza sono un dato acquisito e convenzionale, ma su un piano più strettamente stilistico, formale, estetico. Una bellezza crudele, una violenza spinta ai suoi limiti e alle sue soglie, che inevitabilmente sfocia nel grottesco, nel black humor. Siamo certamente de-sensibilizzati, dopo le prime scene, all’impatto emotivo della violenza, eppure essa riesce sempre a riproporsi a diversi livelli emotivi attraverso la sua continua rielaborazione formale. All’eleganza stilizzata e precisa di un colpo di katana che fa saltare una testa senza scomporre il resto del corpo, segue l’eruttiva espulsione del sangue, e mentre ancora guardiamo l’eccessiva visceralità della scena (decisamente splatter) non credendo ai nostri occhi, è l’intero schermo a dipingersi di rosso, occludere lo sguardo e portare il sangue in primo piano, qualificandolo non solo come il vero protagonista del film, ma anche come elemento innanzitutto formale che in quel, totalizzante e destabilizzante, primo piano, ci restituisce per un attimo la piatta bidimensionalità dello schermo. Si passa così da un piano più concettuale, ad uno più spiccatamente viscerale e corporeo, fino al simbolico… Per Tarantino più che di riflessione sulla violenza si tratta di violenza continuamente riflessa, non tanto filosofia dell’azione ma azione filosofica, movimento incessante, eccessivo, senza limiti, “se incontri il buddha, uccidi il buddha” (Lin-Chi).
di Daniele Guastella