Zatoichi

Il personaggio di Zatoichi è cieco, o perlomeno si finge tale, per poter ascoltare meglio, per essere più preciso ed implacabile, per vedere di più, ma è innanzitutto lo spettatore ad essere investito da questa cecità veggente, da quest’occhio tattile (non a caso Zatoichi è il Massaggiatore) al punto da riuscire a seguire un film in cui il piano virtuale delle immagini si confonde continuamente con quello attuale, lo scavalca, lo precede, lo assorbe. L’azione, che pervade interamente il film nei frequenti duelli e nelle sanguinose carneficine, è sempre già conclusa, troppo rapida e veloce, troppo ‘finta’, mentale, essa si svolge spesso nella testa dei personaggi, in Zatoichi innanzitutto ma anche nel ronin-guardia del corpo, mentre al polo opposto si situa ironicamente il suo girare a vuoto, nella figura dell’Idiota apprendista-samurai che attacca un nemico invisibile con grandi urla e sfoggio di armi e bardature. E’ strano come un film come questo fatto interamente di scontri e duelli precisi ad un livello infinitesimale, che sfiora spesso l’invisibilità stessa proiettandoli su un piano puramente mentale e virtuale, ci sappia restituire il senso profondo dell’attesa e dell’avanzare zoppicante e malfermo del Massaggiatore.
Si tratta appunto di una dimensione mentale e virtuale (iperpercettiva) che ha una presa totale sulla realtà, la assorbe interamente, essendo già, immediatamente, attuale. Lo scontro si può così concludere prima ancora d’iniziare, nell’atto di sfoderare appena la spada, un puro accenno, un’anticipazione che predetermina l’azione- spesso c’è quindi solo il confronto, l’attesa raggelata nel gesto ultrarapido. È tutto già presente in potenza insomma e quando il gesto si attualizza, come un lancio di dadi, il risultato non può che essere conforme alle pre-visioni proprio perché esse erano innanzitutto percezioni: il cieco è l’unico a vedere il trucco del baro perché sente il suono diverso dei dadi, non sbaglia mai proprio perché percepisce le più sottili variazioni. Quindi un film tutto incentrato sulle percezioni, che pre-vedono lo svolgersi dell’azione, inglobando tutte le variazioni possibili (in potenza e in atto), che riescono cioè a cogliere il ritmo profondo delle cose, il ritmo della vita che va dal gioco dei dadi al lavoro nei campi e che si esplicita spesso in musica vera e propria sfociando nella splendida scena finale, culmine percettivo dei corpi e dei movimenti, sublimazione di tutta la violenza cupa e sanguinosa precedente in una pura armonia ottico-sonora: un lungo e fragoroso tip-tap, un luminoso e corale happy-end.
Dunque si tratta innanzi tutto di ritmo, ma è un ritmo tanto udito quanto visto, com’è ben evidenziato nella scena in cui Shinkichi, l’amico un po’ imbranato di Zatoichi, si adopera a fare da maestro a tre giovani allievi, i colpi sono tutti ‘perfettamente sbagliati’, ma con un’accuratissima precisione ritmica comico-parodistica, geniale contraltare alla gravità e al rigore estremo del film. Elemento autoriflessivo e straordinaria lezione di cinema di Kitano in questo suo ultimo lavoro: il ritmo come movimento interiore (del) visibile.
di Daniele Guastella