Blackhat

A sei anni di distanza da Nemico pubblico, Michael Mann torna sugli schermi con quello che dovrebbe essere un action movie sul crimine informatico e i rischi che esso può comportare a ogni livello socio-economico, ma che di fatto si presenta come un vero e proprio laboratorio sperimentale nel quale i canoni di un genere quanto mai consolidato vengono stravolti per sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda artistica di un autore rimasto tra i pochissimi in grado di piegare l’industria hollywoodiana alle proprie urgenze espressive e non il contrario.
Lo schema narrativo intorno al quale ruota la vicenda di Blackhat (undicesimo lungometraggio del settantaduenne regista di Chicago) è infatti il più classico cliché del cinema d’azione rivisto e corretto alla luce delle moderne ansie informatiche che agitano il mondo e che sono quindi inevitabilmente destinate a diventare il motore immobile di un numero sempre più elevato di vicende comunque riconducibili all’universo del cinema in cui il frullato adrenalinico di azione e reazione è la colonna vertebrale del racconto.
Qui si parte da due incidenti che, apparentemente privi di alcun legame, si rivelano ben presto figli della stessa strategia perversa di tensione terroristica e che danno la stura all’intera vicenda: il sistema informatico di una centrale nucleare a Hong Kong viene violato da un virus letale che provoca conseguenze di gravità estrema. Di lì a poco un altro baco digitale si insinua nel sistema informatico della borsa di Chicago gonfiando in modo innaturale il prezzo della soia e facendo così impazzire listini e contrattazioni con esiti letali in tutto il paese.
Quando gli spioni di Cina e USA decidono sul da farsi per accertare cosa ci sia dietro le due gravi violazioni, la soluzione che prevale è la più radicale anche se la meno ortodossa: il solo che possa aiutare la piccola task force di specialisti messa insieme dalle due super potenze è Nick Hathaway, celebre pirata informatico (che in gergo viene definito «blackhat», da cui il titolo del film) il quale sta scontando una dura pena detentiva in un carcere di massima sicurezza per essersi appunto macchiato di crimini legati a gravi violazioni informatiche.
Ma la ragione principale per cui è proprio Hathaway l’unico in grado di mettere il sale digitale sulla coda degli autori delle due bravate di Hong Kong e Chicago è più che altro legata al fatto che i loro autori hanno usato un programma messo a punto da lui quando era ancora libero di scorrazzare in giro per le autostrade della rete facendo danni a vanvera per quel puro gusto di luddismo anarchico che agita di solito le menti sconnesse degli hacker.
Dopo aver accolto a bordo il virtuoso del cybercrimine (che le autorità americane rilasciano con non poca riluttanza vista la pericolosità non solo potenziale del soggetto), la squadra di cacciatori si mette sulle tracce della banda responsabile delle due violazioni in Cina e negli USA, girovagando in maniera frenetica per il pianeta in un forsennato carosello di inseguimenti il cui frullato adrenalinico non impiega moltissimo per trasformare gli inseguiti in inseguitori senza che essi stessi se ne accorgano.
Giunto al suo undicesimo film e a una svolta della carriera nella quale l’industria Hollywoodiana lo aspettava al varco dopo una serie di pellicole costate parecchio ma incapaci di incassare per lo meno il necessario per coprire le ingenti spese di produzione, Mann decide di abbandonare (momentaneamente) la pellicola per affidarsi in toto al digitale. Una scelta questa che potrebbe spiazzarne i molti estimatori — specie da questa parte dell’oceano Atlantico — , ma che di fatto risponde a una ferrea logica estetica perché allinea contenuti e forme nel nome di quella rigorosa coerenza espressiva che ha sempre contraddistinto il cinema di Mann.
Anche se moltissimi altri registi hanno già scelto il supporto digitale per raccontare vicende che ruotano integralmente o in parte intorno alla modernità virtuale del mondo in cui viviamo, Blackhat sembra voler proporre un approccio molto diverso pur partendo dallo stesso postulato. Mann da una parte adegua infatti il medium espressivo ai contenuti trattati consapevole com’è di non poter tradurre su pellicola la quest di personaggi che inseguono fantasmi della rete con strumenti che le guardie del passato non avrebbero nemmeno potuto immaginare di poter sfruttare. Ma dall’altra non esita a proporre una personalissima riflessione sull’uso del cinema di genere, disinteressandosi quindi deliberatamente del rapporto di coerenza tra materiale trattato e supporto scelto per trattarlo.
Ed è così che questo action movie, pur rispettando in maniera quasi pedante i canoni del genere (con inseguimenti mozzafiato, almeno quattro sequenze di azione allo stato brado girate con maestria assoluta da esperto del settore nonché l’inevitabile storia d’amore tra il protagonista e la bella di turno), ne terremota la sintassi stessa: contro la logica della successione consequenziale degli eventi che dovrebbe portare a uno sviluppo coerente dell’azione, Mann preferisce proporre un modello di narrazione in cui il montaggio rapido si alterna a momenti di riflessione pausata e le ellissi del racconto e le cesure apparentemente immotivate sono compensate da fasi bradicardiche che gli permettono di investigare nell’anima tormentata dei suoi personaggi, posticci antieroi di un mondo che credono di saper decifrare pur subendone irreparabilmente gli scacchi.
Quel che ne esce è un prodotto spigoloso e anomalo che è il riflesso della personalità del suo autore, un irregolare di razza purissima capace qui di piegare il cinema di genere alle sue esigenze di raccontare con mezzi nuovissimi una realtà che ancora nessuno conosce appieno (quella della cultura della smaterializzazione digitale destinata a soppiantare la verità tangibile cui l’umanità era stata abituata da millenni) pur vivendoci dentro giorno dopo giorno. Mann disobbedisce alle regole anche se formalmente fa finta di rispettarle. Prova ne sia che il suo Blackhat si apre con una discesa vertiginosa nelle fibre ottiche dei circuiti digitali per concludersi con la più classica delle risse di massa nel pieno di una cerimonia millenaria.
Come già accaduto in passato (Miami Vice recuperò solo metà del budget, mentre Nemico pubblico — Public Enemies faticò ad arrivare al pareggio non ostante una star di altissimo richiamo del calibro di Johnny Depp), anche in questo caso il pubblico americano ha dimostrato di fare molta fatica a capire il cinema di un autore troppo innovativo e iconoclasta. Soprattutto per spettatori abituati da sempre a leggere il cinema come le pagine di un abbecedario in cui tutto sia spiegato alla lettera e nulla possa essere lasciato alla libera reinterpretazione fatta attraverso la lente genialmente deformante di chi, in quell’abbecedario un po’ schematico, ama di quando in quando strappare le pagine sconcertandone il lettore.
Costato 70 milioni, Blackhat ne ha incassati a fatica otto. Il che se da una parte dimostra come certi autori debbano sperare nell’Europa per poter continuare a regalare al pubblico riflessioni sul mondo e su come guardare a quel mondo in continua evoluzione, dall’altra rischia di diventarne la pietra tombale cinematografica, non ostante almeno sei degli undici titoli sfornati da Michael Mann fino a questo falso film di spionaggio/azione (Strade violente del 1981, Manhunter — Frammenti di un omicidio del 1986, Insider — Dentro la verità del 1999, Collateral del 2004, oltre ai già citati Miami Vice e Nemico pubblico — Public Enemies rispettivamente del 2006 e del 2009) lo abbiano convertito in oggetto di culto tra quanti amano il cinema che non deve ricorrere a compromessi per imporre la propria capacità di innovare.
Trama
Il sistema informatico di una centrale nucleare di Hong Kong viene violato da un piccolo virus informatico con conseguenze disastrose. Poco dopo la borsa di Chicago subisce un attacco simile che porta a un’impennata anomala del prezzo della soia destinata a sua volta a far schizzare alle stelle i listini. È a quel punto che l’intelligence di Cina e Usa decidono di affidare a un team di specialisti il compito di far uscire di galera un virtuoso delle violazioni informatiche, condannato a una pesante pena proprio a seguito di una serie di attacchi virali a sistemi nevralgici del paese e creatore del virus che, rielaborato, ha causato i disastri di Hong Kong e di Chicago. Il gruppo si mette sulle tracce di una banda di criminali informatici inseguendone le tracce in giro per il mondo ma finisce col trasformarsi da cacciatore in preda.
di Redazione