Black Dog
La recensione di Black Dog, di Guan Hu, a cura di Alessandro Amato.

«Continua a camminare a testa alta. Sotto il cielo, per foreste e dune. Insieme camminiamo, mano nella mano. Avanziamo a piedi scalzi, il petto nudo. Coperti solo di stracci…». Così declama un vecchio film trasmesso dalla televisione del custode di uno zoo in Black Dog di Guan Hu. Il tema del cammino, inteso come movimento revitalizzante, è il punto d’arrivo di un film che è in primo luogo strettamente legato allo spazio di una città in fase di trasformazione e dei suoi lunari dintorni. Siamo nel 2008, alle porte dei Giochi Olimpici di Pechino. Protagonista è Lang (il taiwanese Eddie Peng), ex motociclista acrobatico e celebrità di una località alla periferia del deserto dei Gobi, che dopo essere uscito di prigione fa ritorno a casa e partecipa alla caccia dei cani randagi per la pulizia delle strade in vista del grande evento. Tra questi animali vi è un grosso cane nero apparentemente più selvatico degli altri, sul quale pende una generosa taglia che Lang non vuole lasciarsi sfuggire. Quando infine si incontrano, i due si riconoscono fuori da ogni schema e diventano inseparabili.
Black Dog lavora senza sosta alla conquista degli spazi tramite lente panoramiche orizzontali su sfondi desolati, aridi, in aperta landa come nel centro urbano. Il mondo in cui si muovono i personaggi e si consumano i loro piccoli drammi quotidiani è quello del riassetto economico cinese dei primi anni Duemila: una fase molto delicata, brillantemente allegorizzata già in tempo reale nelle migliori opere di Jia Zhangke (che appare nel film con un ruolo), dal seminale Pickpocket (1997) al Leone d’oro Still Life (2006). Un cinema, quello di Jia, personalissimo, in un certo qual modo inimitabile, ma al tempo stesso profondamente partecipe del dibattito sulle idiosincrasie di un Paese sorprendente, e in grado persino di creare un canone stilistico per cineasti coevi e successivi. Guan Hu qui dimostra di aver ben compreso l’importanza della distanza e di una messa in scena minimale, straniante, che permette di immergersi in complesse dinamiche politico-sociali.
Premiato a Un Certain Regard di Cannes a trent’anni esatti dall’esordio del suo autore, tra gli esponenti della cosiddetta Sesta Generazione, il film si allontana dai soliti lavori commerciali di Guan per avvicinarsi agli stilemi della produzione autoriale nazionale. Luttuoso ma anche colmo di speranza, Black Dog ci apre una finestra sul presente della Cina fotografandone il passato recente. Il regista viaggia al fianco del suo antieroe senza giudicarlo ma piuttosto interrogandosi sulle difficoltà di chi resta escluso dalle grandi rivoluzioni. L’alienazione di Lang, in particolare, viene simbolicamente sintetizzata nel suo testardo silenzio, selettivo e volontario. Il non-più-giovane uomo sceglie le parole con cura, sempre per esprimere un punto di vista. E infatti, quando giungerà il momento di riprendere in mano la sua vita, saprà rimettersi in sella. Un racconto che si fa esempio virtuoso di come sia possibile ovunque e sempre, anche nelle condizioni più disperate, ritrovare il valore dell’umanità, in questo caso lontano dalla retorica cooperativistica del Partito Unico.

di Alessandro Amato