Bertolucci on Bertolucci. 70a Mostra del Cinema di Venezia

A dispetto delle apparenze e dei timori che la durata di quasi due ore poteva indurre, “Bertolucci on Bertolucci” (evento della sezione ‘Classici-Documentari’ a Venezia 70.), non è un verboso monologo, ma una fitta e appassionante conversazione tra il grande regista e noi -la memoria e l’immaginario  di tante generazioni di spettatori – rispetto al suo cinema che da mezzo secolo parla – e continua a parlare ed emozionare – di questa nostra Italia e del mondo.

E’ un lavoro dalla trama preziosa – grazie a precise scelte di ricerca e “drammaturgia” e,  s’intende, all’ardito intreccio del racconto – firmato a quattro mani dal regista Luca Guadagnino (qua anche produttore)  e da Walter Fasano, suo montatore di fiducia (a sua volta allievo di  Roberto Perpignani, che montò i primi film di Bertolucci). Entrambi per motivi anagrafici (sono nati all’inizio degli anni ’70)  fanno parte, come da loro stessi rivendicato, della generazione degli “ultimi cinefili” che voluto e saputo recuperare in gioventù i grandi frutti delle nouvelles vagues; con questo film, realizzano ora un gesto concreto e al tempo stesso simbolico, di trasmissione dell’eredità di quel cinema.

Arricchendo l’originale progetto (legato a una masterclass di Bertolucci all’interno  della Mostra del Cinema di Pesaro), Guadagnino e Fasano decidono infatti di compiere una full immersion, durata circa due anni,  negli archivi di mezzo mondo per rintracciare – lungo oltre 300 ore di sue dichiarazioni e dialoghi  in interviste, talk show televisivi e simposi scientifici, tra cui una sua conferenza alla scuola psicoanalitica di Vienna- il “pensiero” di Bertolucci -sul cinema, sul mondo ma anche e soprattutto su se stesso, come uomo e come artista. Decidono quindi di lasciare  a lui tutta la scena, e Bertolucci li ripaga grazie alle sue indubbie doti attoriali e affabulatorie (in uno slalom a volte anche un po’ disinvolto tra le diverse lingue). I due restano però a dipanare dietro le quinte e al tavolo di montaggio i molteplici fili di quel pensiero  – riuscendo a volte in ricami prodigiosi come quello di articolare un identico  discorso fatto da Bertolucci  in tempi e circostanze diverse.

Il personale e il politico si intrecciano dunque indissolubilmente nel racconto di Bertolucci – e forse quando lui iniziò a far cinema era più chiaro, al di là degli slogan,  distinguere comunque le due sfere, quindi aver consapevolezza e lavorare sulle nostre contraddizioni.  “Sono un piccolo regista underground che si è infiltrato nel sistema industriale per creare disordine”. E’ proprio con questa dichiarazione che si apre il film, che pone tale dialettica come uno dei ‘fil rouge’ del suo racconto, quel continuo e dichiarato essere e sentirsi in bilico tra mondi e stati diversi: vicino ai nonni proprietari delle terre ma anche – ideologicamente e istintivamente -ai contadini che quella terra lavoravano e preservavano (come avrebbe magistralmente espresso nell’epopea di “Novecento”); tra la sperimentazione dei primi film e i kolossal della maturità, quindi anche tra low budget e grandi capitali, tra l’incomprensione e il successo (o addirittura il trionfo mondiale dei nove Oscar per “Il piccolo imperatore”); la ricerca della spiritualità interiore e l’analisi dei fenomeni storici e sociali,  l’approccio maschile e quello femminile, ecc.ecc.

In virtù di questa scelta degli autori –  che appare del resto coerente con  quanto lo stesso Bertolucci dice della poetica sua e di altri compagni di strada “raccontavamo storie ma coi film volevamo anche fare dei saggi critici” –  a tratti il film sembra quasi una interminabile seduta psicoanalitica, in cui Bertolucci si mette a nudo e rivela le sue pulsioni segreti e quelle del suo cinema.

Lo dichiara, del resto, espressamente:“la macchina da presa  vede sempre la verità; “uso una terza lente, quella della psicoanalisi, che ci avvicina ai sogni”; e si serve  anche di citazioni come quella dall’amato Renoir: “qualunque cosa un regista possa avere  predisposto, la realtà sul set  irrompe sempre, se solo tu hai lasciato una porta aperta”. Bertolucci credeva al set come al  momento cruciale del cinema  e lasciava le porte aperte all’osmosi tra il film e la realtà esterna, anche per i suoi attori, come quando racconta di una magica Debra Winger che ne “Il tè nel deserto”  portava nel film la sua vita, e viceversa.

Come pochi registi, Bertolucci ha lasciato in fondo le porte aperte al dubbio, e alla possibilità di cambiare idea, per spirito di ricerca e verità, non certo per conformismo,  di abbandonare le ideologie logore ma non quel sogno di utopia che persegue da un film già straordinariamente maturo come “Prima della rivoluzione”, girato a soli 22 anni (ma con alle spalle già un’esperienza di assistente di Pasolini per “Accattone”).

Contro il conformismo di cui parlava il suo primo indiscusso capolavoro dovette difendersi molte volte –dalla  critica cinematografica e dall’informazione, dall’opinione pubblica  e poi nei giudici che censurarono e persino decretarono il rogo per “L’ultimo tango”. E, come il film ricorda, fu tra i pochi a denunciare la disinformazione della RAI sulla morte di Pasolini. A volte, per difendersi, usava anche provocare o smitizzare, o persino mimetizzarsi. Sarà per questo che nel film Bertolucci attraversa i decenni offrendoci tante diverse facce e mises –  capelli arruffati e barbe incolte,   capelli corti e folti baffi, cappelli da cowboy e bende alla Kociss, sino ai capelli a larghe tese della maturità; a volte ci -sembra persino assuma espressioni che lo rendono assai somigliante ai suoi primattori da De Niro a Brando a Depardieu. “Non posso farne a meno. Se vedo un obiettivo su di me comincio a posare”. Guadagnino e Fasano ci rivelano dunque un Bertolucci “attore”, ma non per narcisismo d’artista, ma forse come modo di interiorizzare i modelli per essere modello a sua volta. Anche nel nuovo millennio, dopo aver “accettato”, come spiega in modo emozionante nel film, la malattia, l’errore medico e infine l’essere costretto su di una carrozzella, Bertolucci continua a fare film e a indicare alle nuove generazioni  come essere “dreamers”, sognatori di utopie, o anche solo, giovani che non seguono la corrente e rischiano in proprio, anche il dolore e l’isolamento come nell’ultimo vibrante “Io e te”.

E forse, come presidente della giuria di Venezia 70., saprà indicare altri autori e altre strade al cinema del futuro.


di Redazione
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