A Complete Unknown

La recensione di A Complete Unknown, di James Mangold, a cura di Martina Volpato.

Don’t Look Back di D. A. Pennebaker, sulla tournée britannica di Bob Dylan nel 1965, è il primo documentario dedicato al cantautore in una filmografia composita (che include le regie di Sam Peckinpah e Martin Scorsese), ricca e talvolta controversa. Non guardare indietro, quindi. Eppure A Complete Unknown di James Mangold si apre (sulle note del nume tutelare Woody Guthrie) con un’inquadratura dell’autostoppista Bob Dylan (Timothée Chalamet), al secolo Robert Zimmerman, che sul retro di un veicolo scruta alle sue spalle il New Jersey che ha appena lasciato per approdare a New York dalla provincia più profonda, senza mezzi se non una chitarra, spavalderia e traboccante talento. Perché A Complete Unknown, semi-biopic incentrato su un breve periodo della carriera del musicista, dagli esordi nel 1961 alla contestata svolta elettrica del 1965, è un film sul rimpasto artistico della tradizione nell’innovazione, sull’emancipazione senza colpa dalle catene del passato per incedere nella Storia (della nazione, dell’impegno civile, della musica), sull’inafferrabilità del genio artistico, un mistero completamente sconosciuto come la personalità spigolosa, defilata e prismatica del menestrello del Minnesota (il titolo è un verso di uno dei suoi capolavori, Like a Rolling Stone).

In quello che fu l’avvento di una figura quasi profetica che terremotò, tra euforia giovanile e introiti commerciali, la scena musicale degli anni Sessanta e oltre, il film traccia e interseca tre percorsi narrativi, in un mosaico di punti di vista altrui sul ragazzo ribelle e beat: la maturazione all’ombra dell’amorevole mentore Pete Seeger (Edward Norton), le relazioni sentimentali tormentate con la folk singer Joan Baez (Monica Barbaro) e la pittrice Sylvie Russo (Elle Fanning), alias Suze Rotolo, il rapporto schivo con la fama insieme alla ricerca di una propria identità, smarcata dal folk, ma sempre nella fede in Woody Guthrie, quasi dimenticato in un ospedale psichiatrico, dove Dylan gli fa visita.

Un ritratto dell’artista da giovane che James Mangold pennella in prospettiva più orizzontale, senza aspirare alla panoramica dell’affresco d’epoca (che, seppur ricostruita con la maggior adesione storica possibile, riverbera di suggestioni solo modeste), ma nello svelamento delicato di un film musicale di placida nostalgia, con sequenze di esibizioni, duetti, registrazioni, trascinanti nel primato assegnato alle parole, ai versi, alla poesia, al gioco di sguardi, allo sprigionarsi del nuovo. Quasi un film concerto di fiction inframmezzato da una biografia romanzata, classica, scattante, allestita con navigato mestiere (ad opera di chi ha girato Wolverine, Le Mans ‘66 e un capitolo di Indiana Jones), coadiuvata dallo slancio emozionale dei brani reinterpretati dagli stessi attori, con un mimetismo studiato e millimetrico che tuttavia non si esime da infondere rinnovata grazia giovanile.

Tradizionale nella mistura di intrattenimento, scavo intimistico e rievocazione culturale (come si richiede a un prodotto distribuito dalla Walt Disney Company), ma non sempre convenzionale come biopic, A Complete Unknown si estranea infatti dalla parabola dell’American Dream con cadute e rinascite e dal maledettismo più romantico, in una scrittura rettilinea dove la voce d’eccellenza della controcultura sfugge alla leggibilità e orgogliosamente si cela, conservando intatta la sua aura divistica, con il benestare di Dylan stesso, tra i produttori del film e consulente per la sceneggiatura. Timothée Chalamet non imita né replica, ma suggerisce e sottrae, nel cipiglio serafico, nello sguardo acquoso, nelle pose androgine, in una performance della seducente reticenza. Outside Bob Dylan, sempre in ombra; oppure in controluce, come nel finale del più mirabile e trascurato Inside Llewyn Davis dei fratelli Coen, un’odissea tra le memorie da loser di un Dylan mancato, Dave Van Ronk (che qui fa capolino).

Affollato da una galleria di comprimari che Mangold né compatta in una coralità polifonica né scolpisce a tutto tondo nonostante la loro vertiginosa eco di storie, A Complete Unknown aspira a certificare nell’oggi la statura di un mito già oltremodo legittimato, for the times they are a-changin’, e depone ogni sperimentazione formale in simbiosi con l’estro poliedrico del protagonista (strada intrapresa invece da Todd Haynes in Io non sono qui) per costruire un’opera della duplicità, tra l’esordio acustico e quello elettrico, tra Dylan e l’amico Johnny Cash (a cui Mangold aveva dedicato un biopic differente, Walk the Line), tra Joan e Sylvie, tra maestro (Guthrie) e discepolo, tra padre (artistico, Pete Seeger) e figlio.

Nel nome del padre (soppiantato) A Complete Unknown squarcia la sua dimensione più introspettiva sul presente, nella crisi della genitorialità, nel tramonto culturale dei modelli, nel peso dell’eredità del passato, eleggendo non casualmente come alfiere un volto generazionale come quello di Timothée Chalamet, affiancato da un encomiabile Edward Norton, in uno dei più eterei e struggenti ruoli di supporto degli ultimi anni al cinema. Se il film non si staglia per vigore espressivo e dirompente originalità come una pietra che rotola, almeno per gli appassionati del cantautore premio Nobel garantisce la tanto sospirata direction home.


di Martina Volpato
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