La scommessa – Una notte in corsia

La recensione di La scommessa - Una notte in corsia, di Giovanni Dota, a cura di Guido Reverdito.

Angelo (Carlo Buccirosso) e Salvatore (Lino Musella) sono infermieri in un ospedale napoletano. Navigato ed esperto il primo, già nonno anche se protagonista di una tresca con una collega che la moglie minaccia di uccidere essendone venuta a conoscenza, il secondo è invece un bamboccione cocco di mamma che fa le vacanze con l’anziana genitrice e ha evidenti problemi di ludopatia. Quando la notte di Ferragosto arriva in corsia un paziente ottantenne in coma, per combattere l’afa opprimente e la noia della routine, i due decidono di ravvivare la nottata scommettendo sulla vita e sulla morte del malcapitato 200€ e le vacanze di Natale e Capodanno da trascorrere lontano dalla corsia. Col passare delle ore e con l’accavallarsi di una serie frenetica di incastri narrativi da vaudeville che coinvolgono non solo pazienti degenti nella struttura, medici e paramedici (esilarante il chirurgo cocainomane chiamato a operare nel cuore della notte), ma anche membri delle loro famiglie, Angelo e Salvatore finiscono con lo scoprire il lato più oscuro del proprio cuore di tenebra in un crescendo di terapie sbagliate, tentati omicidi e dimostrazioni record di spregio dell’etica professionale.

La scommessa – Una notte in corsia è l’opera seconda del napoletano Giovanni Dota, presentata a Venezia nell’àmbito delle Giornate degli autori prima di uscire in sala.

Assistente alla regia nelle prime due serie TV di Gomorra e con alle spalle due cortometraggi visti in passate edizioni del festival in laguna (il super premiato Fino alla fine e il più recente Una cosa mia), Dota aveva esordito due anni fa con lo scoppiettante ma divertente Koza nostra, ritratto semiserio ai limiti della parodia di un’anomala famiglia mafiosa siciliana scombussolata dall’arrivo di una donna ucraina finita quasi per caso a fare fa governante al capofamiglia in declino.

Esempio più unico che raro di sceneggiatura capace di essere iper frenetica pur poggiando su una struttura chiusa da pièce teatrale e dovendo anche fare i conti col rispetto rigoroso sia dell’unità di tempo (tutto in una notte) che di lugo (non si esce mai dall’ospedale), questo saggio di sana commedia all’italiana – una di quelle tragedie che fanno ridere come amava definire il proprio cinema Mario Monicelli –, disegna con arguzia un ritratto dell’italiano medio e dell’irresponsabilità professionale per cui anche il miglior sistema sanitario al mondo può rischiare di trasformarsi in un palcoscenico tragico dove le vite umane valgono l’esito di un scommessa.

Se però il risultato dell’intera operazione è una miscela positivamente esplosiva di momenti esilaranti da black comedy all’inglese e squarci di indagine antropologica da manuale, questo lo si deve anche e soprattutto ai due mattatori che interpretano Angelo e Salvatore: Buccirosso e Musella (due caratteristi che il cinema nostrano ha usato meno di quel che avrebbero potuto regalare se li si fosse affrancati più spesso dal ruolo di gregari di lusso), in scena per tutti gli 84 minuti del film, sono travolgenti nel disegnare con mimesi totale due vitelloni capaci di scherzare con la vita altrui pur di veder trionfare il proprio meschino egoismo. Ovvero il ritratto stereotipato solo fino a un certo punto di quell’italianità tossica che antepone l’io al bene comune e troppo spesso confonde la furbizia truffaldina con l’urgenza della propria realizzazione sociale e personale.


di Guido Reverdito
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