Tarantino, la critica e la deriva cinefila

“Non credo che mai riuscirò ad eguagliare la sequenza finale di Il buono, il brutto e il cattivo di Sergio Leone”, ha recentemente dichiarato il regista Quentin Tarantino fornendoci, suo malgrado, il destro per una riflessione sul cinema come arte autoreferenziale, in un’epoca, la nostra, in cui sembra davvero venir meno il segnale forte che accompagnava quell’idea di modernità filmica, che servì a formare il concetto di cultura cinematografica. Perché Tarantino? Perché la sua formazione di cinefilo passa attraverso il cinema di serie b e finanche di serie z, che peraltro trova nelle opere realizzate, almeno da “Pulp Fiction” (“Le iene”, a nostro avviso possiede qualità drammaturgiche inedite) in avanti, una pur originale interpretazione.
Fin qui tutto bene. Il discorso si fa più complesso e ambiguo allorché un’intera generazione, quasi unanime, di critici, lo abbia eletto a modello, esattamente come, a sua volta, lo stesso Tarantino ha fatto con il compianto Sergio Leone quale modello insuperato. Immerso nella propria infanzia cinematografica, Tarantino ne rivitalizza i fantasmi, ora citando il nostro, più sovente il cinema di Kung-fu hong-konghese, dando ai suoi fans con il dittico di “Kill Bill”, una quasi perfetta macchina d’evasione, uno spettacolo popolare (si badi non nell’accezione negativa del termine) che non manca di quel tipo di suggestioni elementari cui di solito affidiamo i nostri sensi in una sorta di ritorno all’infanzia del cinema in senso meliesiano e ancor più alla propria infanzia e adolescenza, ossia quando in Italia impazzava il b-movie (che qualcuno oggi ha definito stracult), in tutti i generi e direzioni possibili.
Ciò che oggi accade di vedere è per l’appunto una generazione di critici spesso formatisi con la televisione, che si affanna, body and soul, a dissertare su grandangoli, inquadrature e piani-sequenza, trasferendo il metodo della critica formalista sul piano del puro intrattenimento. Un’operazione culturale intellettualmente scorretta, tesa perlopiù ad avviare l’opera di smantellamento (come peraltro è già avvenuto sul piano politico), di qualsivoglia divisione tra cinema commerciale e cinema d’autore, ma ancor peggio il rifiuto di un cinema “necessario” che sappia porsi come interlocutore critico e autonomo con la realtà. Quanto alla presunta rivalutazione dei generi della commedia demenziale all’Abatantuono, per intenderci, o sul tono di film come “W la foca” o piuttosto del western all’italiana, emergono due ordini di considerazioni: la prima riguarda più da vicino l’affermazione (apparsa di recente su un quotidiano della sinistra), secondo cui il western all’italiana dei Sollima, dei Corbucci, dei Damiani e dei Lizzani, sarebbe stata la migliore e più autentica testimonianza del ’68 nel cinema (pur volutamente considerando l’aneddoto secondo cui gruppi extraparlamentari di sinistra solevano dire fra di loro “vamos a matar companeros”). Ribadiamo che la presunta modernità del cinema di Leone non solo ha prodotto filiazioni degeneri, ma ha in sé i segni manieristici dei propri limiti estetico culturali. Si tratta pur sempre di una scorciatoia critica per non puntare lo sguardo su ben altre opere di quell’epoca, che pur con le loro imperfezioni ed eventuali fallimenti, ne hanno tuttavia segnato il clima morale e politico (come puntualmente ci conferma il tanto inutilmente celebrato film di Giordana), in linea con un clima ormai irrespirabile di “sonno della ragione” che potrebbe produrre, anzi, già produce “mostruosità” critiche candidamente contrabbandate per verità La seconda considerazione si lega essenzialmente alla prima non facendo che confermare che ormai in questo paese è avvenuto un passaggio epocale verso la totale massificazione delle idee e delle forme da cui molti si aspettano forse chissà quali promesse e piaceri. Per ciò che riguarda, infine, l’annunciato Kill Bill 3, del nostro (ma di tutti!) Tarantino, ci auguriamo che possa finalmente rifare quella famigerata sequenza, perché se l’emulazione è la sua virtù, a lui l’ardua prerogativa. Noi invece, continuiamo a credere alla battaglia delle idee come segno inconfondibile di una fiducia nell’uomo e nelle sue virtù etiche ed espressive.
di Maurizio Fantoni Minnella