A Michael Moore la Palma d’oro 2004
Diciamolo subito: l’edizione di quest’anno del Festival Internazionale del film non è stata fra le migliori, anzi era tempo che non si assisteva ad una rassegna talmente sottotono. I motivi di questa caduta sono molti. Ha avuto un peso decisivo la condizione generale di crisi dei paesi europei che, unita ad un innalzamento considerevole dei prezzi ha scoraggiato molti frequentatori non strettamente professionali. Hanno pesato i timori innescati dalla sanguinosa ripresa degli atti di terrorismo. Hanno inciso le manifestazioni sindacali, dei lavoratori occasionali dello spettacolo e dei dipendenti dei grandi alberghi, che hanno trovato sulla Croisette un palcoscenico particolarmente accattivante. A tutto questo va aggiunto un momento qualitativamente non favorevole della produzione di film a livello mondiale. Poche volte si è vista una rassegna priva di titoli d’autentico rilievo e la stessa scelta di rimpinzare la sezione ufficiale con documentari e disegni animati è parsa più una scelta di ripiego che non una decisione consapevolmente assunta. Le scelte di questa direzione hanno sempre rispecchiato, con un buon grado d’approssimazione il clima che spirava nel mondo, quindi possiamo dedurre che il barometro del 2004 segna sicuramente il brutto. I maggiori dati di crisi vengono dall’Estremo e Medio Oriente sino ad ieri serbatoi d’opere di gran rilievo e forza stilistica. Si pensi al cinema iraniano quest’anno certamente in ombra, a quello dell’area cinese – Taiwan, Singapore, Cina Continentale – da cui sono venuti sprazzi di vivacità ed interesse, ma che non ha confermato di essere una fucina continua di nuovi talenti. Gli stessi autori affermati presenti in cartellone, da Emir Kusturica a Wong Kar Wai, hanno presentato opere che confermano il passato, ma non avanzano verso il futuro. Il cinema americano, poi, ha presentato opere furbe, come Ladykillers dei fratelli Coen, o produzioni commerciali a tutto tondo. Infine è il clima stesso che ha segnato la manifestazione a presentare segni di stanchezza non sanati neppure dall’arrivo massiccio di divi del cinema e della televisione.
I premi hanno offerto qualche sorpresa, ad iniziare dalla Palma d’Oro andata a Fahrenheit 9/11 di Michael Moore. Pochi avrebbero scommesso sulla compatibilità fra quest’opera e il sentire del presidente della giuria Quentin Tarantino e a Cannes i presidenti contano davvero. Una Palma di questo genere e gli applausi convinti che l’hanno accompagnata, la dicono lunga sull’insofferenza e rabbia che molti americani provano nei confronti del presidente Bush, delle sue guerre e della sua arroganza. Questo premio ci ricorda anche che l’America ben più complessa di quella che solitamente c’immaginiamo. Con questo riconoscimento il documentarista americano raddoppia le lauree ottenute sulla Croisette: nel 2002, aveva avuto quella per il 55mo anniversario del Festival con Bowling for Columbine. Molto più adatto al sentire del regista di Kill Bill il Gran Premio andato ad Old Boy, del coreano Park Chan-wook, un film moderatamente nuovo, ma ben costruito e fluido nella sceneggiatura che, quanto a violenza, non sta dietro a nessuno. Discutibile, poi, il diploma per l’interpretazione maschile del quattordicenne Yagira Yuya di Non lo sa nessuno di Kore-Eda Hirokazu. Nulla da dire sul meritatissimo riconoscimento per la migliore interpretazione femminile consegnato a Maggie Cheung, la madre tossicomane in lotta per ripulirsi nel non eccezionale Clean d’Oliver Assays. Il lauro d’Agnès Jaoui e a Jean-Pierre Bacri, autori della sceneggiatura di Comme une immage, é un contentino per i padroni di casa. La migliore regia, Tony Gatlif autore di Esilii, e i premi della giuria, Apichatpong Weerasethakul regista di Malattia Tropicale e Irma P. Hall, interprete de La signora omicidi dei fratelli Coen, appartengono al mondo del politicamente corretto.
di Umberto Rossi