O batuque dos astros, un film-saggio tra Bressane e Pessoa

Nel volume “L’immagine-movimento”, a proposito della volontà di Antonin Artaud di “congiungere il cinema con la realtà intima del cervello”, Gilles Deleuze scrive: “Questa realtà intima non è il tutto, al contrario è una fessura, un’incrinatura. Finché crede nel cinema, Artaud gli attribuisce, non il potere di far pensare il Tutto, ma al contrario una forza dissociatrice che introdurrebbe una figura del nulla, un buco nelle apparenze”. La forza dissociatrice di cui parla Deleuze è, certamente, la stessa che è all’opera nell’intera filmografia di Julio Bressane, il quale afferma: “L’autore che sa cos’è, non è un autore, è un pazzo. E’ uno che non è arrivato alla questione. Che non è riuscito a liberarsi di se stesso. Tu riesci solo ad essere qualcosa, “autor”, se ti liberi di te stesso, se esci fuori di te”. L’autore non esiste: è “personne”. Non è un caso , allora, se persino in Dias de Nietzsche em Turim (2001), uno dei film di Bressane più strutturati e meno sperimentali, la macchina da presa fa sì che l’Io cambi, si dissolva, diventi altro, permeabile ad altre individualità e, contemporaneamente, suscettibile di recuperare la totalità dell’esistenza passata, presente e futura.

Con premesse di questo tipo, era inevitabile l’ “incontro” tra Bressane e Fernando Pessoa, uno dei più grandi poeti di lingua portoghese e figura capitale della letteratura del Novecento. O batuque dos astros (Il baccano degli astri), film-saggio del regista brasiliano presentato al settimo Festival Internazionale del Film di Roma all’interno del Concorso CinemaXXI, nasce da un viaggio a Lisbona, dove Pessoa è nato. Lo scrittore portoghese dedicò tutta la sua vita alla progettazione di una vasta opera che pubblicò su riviste e giornali a nome suo e dei suoi eteronimi ( Alberto Caeiro, Riccardo Reis, Alvaro de Campos), che fece muovere nell’ambiente culturale portoghese come fossero personaggi reali.  Nell’opera di Pessoa, come nel cinema di Bressane, convivono il reale e la maschera, il naturale e l’artificiale, la forza e la debolezza, la paura e il coraggio, il chiaro e l’ambiguo, il bene e il male. Detto altrimenti, per entrambi nelle fessure di ogni identità è sempre inscritto un “altro” enigmatico.

Le tematiche del letterato portoghese e del cineasta brasiliano si confondono e si toccano a tal punto che Bressane inserisce nel film, accanto a citazioni di Pessoa, spezzoni di sue opere, da O gigante da América (1978) a Cleopatra (2007), che si sposano perfettamente con tutto il resto. Insomma, è difficile dire se sia Bressane a spiegare Pessoa o viceversa: frasi come “Mi fermo al mio limite e mi affaccio”, “Universo, sono te”, “Io sono un caleidoscopio”, “La nave dei sogni non ha porto”, possono essere attribuite, a piacere, all’uno o all’altro dei due, accomunati da un’idea di identità “fluttuante”, come gli abiti stesi al vento, sotto la pioggia, in una delle immagini conclusive di questo film impegnativo, raro e prezioso. L’oscillare è il nostro luogo di elezione, sembrano dire entrambi, evocando, così, un lungometraggio di un altro grande portoghese: Vale Abraao (1993) di Manoel de Oliveira. Qui, Ema, la protagonista, discorre sull’etimologia della parola “rosa”, in sanscrito “anima oscillante”, definizione scelta per sé stessa. Va, però, chiarito che se, apparentemente, la consistenza dei personaggi di Pessoa e di Bressane tende a dissolversi e a liquefarsi, in realtà, ciò non avviene mai. Come dice  padre Antonio Vieira, protagonista di Sermoes (1989) di Bressane e di Palavra e Utopia(2000) di De Oliveira: “Non è un lasciare lasciando, è un lasciare ritenendo, è un lasciare conservando, è un lasciare senza lasciare”.


di Redazione
Condividi