Acciaio

Tratto dall’omonimo e fortunato bestseller di Silvia Avallone cui sono stati attribuiti, tra i molti, anche il Premio Campiello Opera Prima e che è stato tradotto in 19 lingue, Acciaio è il secondo film di Stefano Mordini, quarantaquattrenne fiorentino il cui non banale esordio registico del 2005 (Provincia meccanica) era stato il solo film italiano a rappresentare l’Italia alla Berlinale finendo però col non raccogliere molti favori di critica pur offrendo uno sguardo molto particolare sul rapporto tra libertà individuale e regole del vivere civile.

Proveniente dal mondo del documentario (intensi e riusciti i suoi Il Confine – sulle varie comunità islamiche in Italia -, e Come mio padre – incentrato invece sui diversi modi in cui la funzione della paternità è stata percepita in Italia dagli anni ’50 ai nostri giorni), con questa sua opera seconda Mordini ha il coraggio di raccontare un mondo che sembrava ormai sparito non solo dagli schermi cinematografici ma soprattutto dalla società stessa e dall’attenzione dei mezzi di comunicazione. Ovvero quella classe operaia che è stata protagonista assoluta di grandi romanzi e film nel secolo scorso e che invece adesso sembra solo un prodotto di archeologia sociologica che ogni tanto qualche nostalgico riesuma dalle polveri del passato.

Presentato quest’anno nella selezione ufficiale delle Giornate degli Autori alla 69ª Mostra del cinema internazionale di Venezia, Acciaio ha invece il coraggio di richiamare l’attenzione su un mondo che sembra ormai del tutto estraneo e tangenziale rispetto alle frenesie sterili del nostro vivere contemporaneo, concentrandosi su una specifica realtà locale – quella del polo acciaieristico di Piombino, da sempre legato a doppio filo ai destini della sua industria pesante – per richiamare l’attenzione su una realtà ormai così desueta da sembrare uno scenario museale.

La vicenda ruota intorno a due quattordicenni di Piombino, Anna e Francesca, unite da un’amicizia inossidabile perché cresciute insieme all’ombra dei casermoni popolari di un quartiere in cui si sono da sempre un po’ ghettizzati quanti per generazioni hanno dovuto spezzarsi la schiena e rovinarsi la salute nella sola realtà lavorativa che la zona offra. Ovvero quell’Ilva (oggi Lucchini) per anni nell’occhio del ciclone e adesso sopravvissuta con nuovo nome ma costantemente sull’orlo di una crisi di nervi economica e a rischio di chiusura con conseguente collasso dell’intero bacino professionale che per più di cent’anni è sopravvissuto solo grazie all’acciaio.

Ciò che lega le due ragazze è però anche un sogno, e cioè quello di poter un giorno spezzare la catena della necessità ineludibile, interrompendo la staffetta che da generazioni caratterizza la vita lavorativa di ogni famiglia, con posti di lavoro tramandati di padre in figlio, senza che vi sia mai la prospettiva di un domani possibile. Quel che le due quattordicenni sognano nell’anno ripercorso dalla pellicola e che le vedrà traghettare dalle scuole medie alla nuova avventura scolastica del liceo è di poter cambiare un giorno le loro vite, magari spostandosi all’isola d’Elba (dove non sono mai state non ostante l’isola da cui deriva anche il nome dell’Ilva stessa sia a un tiro di schioppo dalla costa), che esse mitizzano ingenuamente vedendola dall’altra parte del mare e immaginandola gremita di turisti senza grilli per la testa.

Grilli di cui sembrano invece piene le teste di quanti compongono le loro rispettive famiglie, fatte di adulti variamente allo sbando che danno il peggio di sé nella coppia dei padri, uno dei quali è rozzo e manesco (forse c’è di mezzo anche qualcosa che somiglia a un incesto), mentre l’altro è un transfuga delle responsabilità (deciso a lasciarsi alle spalle troppi anni di Ilva, sparisce ricomparendo dopo mesi con un esibito benessere che ha forse origini poco pulite). Adulti che però non sembrano più incoraggianti anche nelle generazioni meno attempate e teoricamente ancora sostenute dall’illusione della speranza in un futuro diverso e non necessariamente circoscritto all’inferno degli altiforni di Piombino.

Prova ne sia Alessio, fratello di Anna destinato a fare una brutta fine, il quale dà l’impressione di essere una specie di vecchio in anticipo perché difende a oltranza il valore del lavoro in fabbrica, ed è impantanato in una difficile relazione con Elena, bella borghese divenuta dirigente nonché sua responsabile ai piani alti dell’azienda la quale torna in fabbrica a Piombino dopo aver preso una laurea e trova lavoro nell’unico posto che avrebbe voluto eliminare dalla geografia professionale del proprio futuro. Alessio però non è uno stinco di santo: lo si vede un paio di volte sniffare coca (ormai ex droga per ricchi) e rubare cavi dell’alta tensione da rivendere a balordi per arrotondare il magro stipendio.

Nel passaggio da un’estate all’altra, il racconto ripercorre il percorso di maturazione di Anna e Francesca: mentre la prima comincia a scontrarsi con gli inghippi della vita degli adulti (a iniziarla al sesso è un amico del fratello per nulla preoccupato di intavolare una relazione pericolosa con una minorenne), la seconda viene travolta da una mini discesa agli inferi che, dal probabile abuso da parte del padre domestico e attraverso la delusione del tradimento dell’amica che le preferisce il ragazzo più maturo, scivola verso un pericoloso degrado progressivo arrivando a fare la entraîneuse bambina in un localaccio. E se alla fine di questo percorso di (de)formazione in parallelo le due ragazze ritrovano il senso di quello che le ha unite per anni, l’ultima sequenza del film ce le consegna finalmente rilassate su una spiaggia dell’Elba, dove però la voce fuori campo di una di esse ci informa che sono perfettamente consapevoli di essere state reclutate in maniera stabile nell’immensa legione dei giovani e giovanissimi italiani cui la ferocia del reale ha scippato le speranze di un futuro plausibile.

Scritto a sei mani dallo stesso Mordini e da Giulia Calenda (suoi gli script di La bestia nel cuore, Un giorno speciale, Solo un padre) in collaborazione con l’autrice del romanzo, Acciaio vede nei ruoli delle due protagoniste esordienti le quattordicenni Anna Bellezza – di origini napoletane – e Matilde Giannini, entrambe del 1995 e residenti a Piombino, scelte dal regista dopo un casting molto laborioso con decine di coetanee visionate. Nei ruoli di Alessio ed Elena vediamo invece all’opera Michele Riondino (sua la faccia de Il giovane Montalbano in TV ma già apprezzato in pellicole di qualità quali il recente Bella addormentata di Bellocchio) e l’ancor più televisiva Vittoria Puccini. Ovvero due volti fin troppo “carini” e acqua e sapone (sopratutto la Puccini, del tutto a disagio nel ruolo col suo viso da assorta Madonna quattrocentesca) per adattarsi come dovrebbero alla rude realtà della fabbrica in cui la loro tormentata storia d’amore si svolge.

Acciaio è un film coraggioso sia per l’idea di riportare giù dal paradiso quella classe operaia che si dava già per morta a fine anni ’70 che per la scelta di trattare temi tanto fuori moda quanto poco attraenti dal punto di vista della spendibilità estetica. E si pensa al mondo della fabbrica, o alla disperazione cupa dell’universo operaio scollato da ogni forma di contatto col resto della società in costante evoluzione o ancora a una città – Piombino – presentata come lo scenario di un brutto incubo da film di fantascienza distopica e responsabile di aggravare con la sua cappa di tristezza la negazione di un futuro che milioni di coetanei delle due protagoniste si vedono ugualmente sbattere in faccia ogni giorni senza però dover pagare anche questo dazio aggiuntivo di natura ambientale.

Un coraggio che Mordini compensa però con qualche debolezza là dove sembra rinunciare a incidere affondando il coltello nella piaga con maggiore cattiveria (si veda il finale vagamente consolatorio e l’atteggiamento rinunciatario che il regista mostra nel limitarsi ad accennare senza approfondire), e lascia che un approccio vagamente documentaristico lo spinga a illustrare lo stato delle cose senza entrare a fondo nelle motivazioni che spingono i vari personaggi ad agire in un determinato modo. E in questo di certo non lo aiuta il fatto di avere poco tempo a disposizione per trasferire in immagini un romanzo in cui l’aspetto più rilevante è dato proprio dall’analisi quasi speleologica delle pieghe interiori dei suoi protagonisti, che nel film sembra invece agiscano senza che lo spettatore comprenda quali siano le molle interiori che ne animano i moti più reconditi dell’anima.

Trama

Nella Piombino legata a doppio filo ai destini precari delle sue acciaierie (per più di un secolo unica risorsa per quanti in zona cercavano un lavoro), due amiche di quattordici anni si confrontano con le asprezze della vita degli adulti senza però rinunciare a credere nel sogno di una vita migliore.


di Redazione
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