Giovane ragion critica: nuovi elaborati

I contributi pervenuti di Mattia Barella, Laura Bonfanti, Diego Matteo Di Gennaro, Emma Pappalardo, Sofia Racco, Sara Sicolo, Nicole Valentini, Lorenza Valle e Beatrice Varallo.

Pubblichiamo di seguito in questa rubrica i contributi pervenuti di Mattia Barella, Laura Bonfanti, Diego Matteo Di Gennaro, Emma Pappalardo, Sofia Racco, Sara Sicolo, Nicole Valentini, Lorenza Valle e Beatrice Varallo, contestualmente a quello apparso su “Cinecritica cartaceo n.115/116 di dicembre 2024 di Davide Rui, selezionato dalla redazione di «Cinecritica» nell’ambito della collaborazione tra la rivista e il Seminario residenziale di critica cinematografica, diretto e condotto da Anton Giulio Mancino. Il corso, ideato da Paola Pedrazzini per la Fondazione Fare Cinema da lei diretta e del Comune di Bobbio, si è svolto a Bobbio dal 27 luglio al 4 agosto 2024, all’interno del Bobbio Film Festival nell’ambito del progetto Fare Cinema per la direzione artistica di Marco Bellocchio.

L’elenco completo dei corsisti selezionati dell’edizione 2024, nonché giurati del Festival, comprende Martina Bani, Mattia Barella, Ettore Angelo Baronio, Matteo Bertassi, Laura Bonfanti, Mattia Bonifazi, Marcello Casalino, Emanuele Casati, Leonardo Chiavarini, Antonio Congias, Emanuele Ciro Cotugno, Emma D’Este, Diego Matteo Di Gennaro, Emma Maria Dinuzzi, Nausicaa Fermi, Ilaria Ferretti, Stefania Filace, Giada Franzoni, Giulia Galbiati, Orlando Ghinzelli, Gaia Francesca Laurendi, Francesca Marchesini, Carmen Marinacci, Edoardo Mazzette, Alessandro Michelozzi, Laura Minervini, Vito Jacopo Nocera, Valentina Oger, Luca Pacchiarini, Giovanna Palladini, Emma Pappalardo, Anna Pedri, Amedeo Giulio Proietti Bocchini, Sofia Racco, Davide Rui, Francesco Sellitti, Sara Sicolo, Valentina Testa, Ilaria Torresan, Luca Uggeri, Nicole Valentini, Lorenza Valle, Francesco Vallotto, Beatrice Varallo, Elisa Venco, Livio Agostino Ventura, Mara Vignola, Edoardo Zaltron. A loro, a conclusione del Seminario, è stato come ogni anno chiesto di presentare un saggio incentrato su una specifica tendenza del cinema italiano contemporaneo a partire dalla recensione presentata al bando per l’ammissione.  

Beatrice Varallo

Un addio ai nostri padri, da I pugni in tasca a El Paraíso

“Prima la vita e poi il cinema”
Luigi Comencini (Fabrizio Gifuni) ne Il tempo che ci vuole

Una delle tematiche che il cinema italiano non riesce a lasciare andare è il rapporto tra genitore e
figlio. Da Luciano Serra Pilota a Parenti Serpenti il conflitto generazionale, che sia una storia
prettamente individualista o che proponga una riflessione a livello universale, è un concetto che i
cineasti italiani ripropongono più volte.

Mentre i registi della Nouvelle Vague si stavano staccando nettamente da ciò che li aveva preceduti,
il “Cinéma du papa”, in Italia siamo sempre rimasti legati alle nostre radici cinematografiche. Fellini
e Antonioni non riuscivano a lasciar andare il cinema di Visconti, Rossellini e De Sica. Allo stesso
modo, Bertolucci era rimasto legato ai due cineasti emiliano – romagnoli. Rimane presente, nel
panorama cinematografico nostrano, questa tradizione di non distruggere mai le basi, ma di costruire
sempre a partire da esse.

Con I pugni in tasca, Marco Bellocchio sembra annullare questo atteggiamento, uccidendo
metaforicamente (e letteralmente, nel film) qualsiasi legame con una figura genitoriale. Dopo il
cambiamento radicale posto da lui nel cinema italiano, con anche dei seguaci come i fratelli Taviani,
questa pulsione rivoluzionaria scompare. Sorge spontaneo interrogarsi su dove sia andata a finire
questa narrativa sul legame tra genitori e figli, sia come storia vera e propria che come metafora per
la società o il cinema.

Nel film El Paraíso, diretto da Enrico Maria Artale, la storia si concentra su Magdalena e Julio, madre
e figlio che condividono non solo un lavoro nel traffico di droga, ma anche un legame familiare
complesso e sfaccettato. Il film è come una ventata d’aria fresca, quella respirata dai due a bordo del
proprio motoscafo, in quanto tenta un approccio nuovo alla relazione tra genitore e figlio.
Artale ha rivelato di aver avuto l’idea per questo film durante le riprese di Saro, un documentario sul
proprio padre. Tornando alle sue radici in Sicilia e lavorando a ritroso nel tempo, il regista ha
riscoperto qualcosa di inaspettato: la sua figura materna. Questa sincerità nell’approcciarsi alla
relazione tra madre e figlio, forse ingenuità poiché scaturita dal caso, fa sì che la narrazione di El
Paraíso risulti incredibilmente veritiera. Le interazioni tra i due sono così reali che si percepisce la
genesi del film, proveniente dal documentario.

La relazione tra Julio e Magdalena alterna periodi di armonia e di conflitto nell’ambiente di tossicità
abitato da entrambi. Gli spazi occupati dai personaggi sono stretti e angusti: le quattro mura della
casa si stringono costantemente su di loro. Le inquadrature del film mimano il loro spazio mentale:
troppo stretto e claustrofobico, come quello di chi rimane nel proprio immobilismo senza ambire ad
andare oltre. La narrazione sarà tale fino a quando Julio non deciderà di partire per un viaggio, con
lo scopo di riportare le ceneri della madre in Colombia, andando alla ricerca della sua storia. Allora i
campi larghi del mare, di un turchese infinito, acquisiscono un senso: il viaggio di Julio è sia fisico
che spirituale.

Julio non scoprirà mai chi sia davvero sua madre, e neppure noi. El Paraíso comunica che possiamo
a malapena conoscere noi stessi; pretendere di conoscere gli altri, anche se una figura che ci ha
osservati dalla nascita, è impossibile. Julio sperimenta la frustrazione e la sofferenza dell’incognito,
nascosto e impossibile da scoprire. Ma il filo che unisce lui e sua madre continua attraverso
l’oltretomba, come quello di Orfeo ed Euridice: un ultimo, dolcissimo ballo mortale consegna l’ultima
immagine di Julio allo spettatore, che ha finalmente realizzato come anche il più disfunzionale dei
rapporti a volte sia pieno di amore.

Il film non intende affatto glorificare le relazioni tossiche, piuttosto offre al pubblico un ritratto
realistico delle dinamiche interpersonali, evitando qualsiasi artificiosità o eccesso drammatico. El
Paraíso esplora la complessità dei legami, in particolare tra genitore e figlio, due figure unite dal
vincolo di sangue ma spesso in conflitto. L’occhio di Enrico non risulta mai giudicante: con
delicatezza cattura sia la bellezza che il dolore di un legame non funzionale.

Nel mondo odierno, in particolare in Italia, c’è bisogno di una maggiore comprensione delle relazioni
genitoriali, che stanno cambiando, andando oltre la tradizionale distinzione dei ruoli. All’estero, film
come Mommy di Xavier Dolan hanno tracciato una nuova rotta, analizzando i conflitti e le affettività
familiari. In questo contesto, El Paraíso rappresenta un punto di partenza significativo e non è un
caso che Il tempo che ci vuole di Francesca Comencini, uscito recentemente, affronti dinamiche
parallele ma da una prospettiva opposta.

Nel film, la regista racconta del rapporto con il padre, Luigi Comencini. È interessante notare come
in El Paraíso di Julio manchi la figura paterna, mentre in questo film Francesca senta la profonda
assenza della figura materna. I due film si concentrano su una figura genitoriale specifica ed esplorano
non solo le complessità delle relazioni, ma anche i conflitti che nascono dall’assenza dell’altro
genitore.

Anche qui la coppia protagonista è unita dal lavoro: dove in precedenza c’era la droga, ora c’è il
cinema. Tuttavia, l’elemento presente in El Paraíso non è del tutto estraneo alla vita della regista e,
di conseguenza, al film: uno dei momenti culminanti della narrazione è quando il padre scopre che
Francesca fa uso di sostanze. Anche in questo caso, l’assenza di giudizio è palpabile. Quando Luigi
si rivolge alla figlia, sembra voler dire: “Hai sbagliato, hai fallito, ma anch’io ho fallito. Se tu sei un
fallimento, allora lo sono anch’io.” Vi è la totale assenza di negatività: nella scena è presente solo un
profondo senso di accettazione.

Il tempo che ci vuole, come El Paraíso, è un film sulla difficoltà di lasciar andare. Arriva un momento
in cui il legame con i propri padri (intesi sia come genitori sia come padri cinematografici) deve essere
reciso per permetterci di spiccare il volo. Entrambi i film mostrano quanto sia difficile osservare
l’invecchiamento dei propri genitori: si scoprono lati di loro rimasti nascosti. Vorremmo vederli come
invincibili, ma prima o poi crollano anche loro (come nella scena della barba in Il tempo che ci vuole).
Non dobbiamo abbandonarli: dobbiamo prenderci cura di loro per poi allontanarli con delicatezza.
L’aggiunta più significativa a questa volontà narrativa è l’assenza totale di giudizio: lo spettatore non
è chiamato a schierarsi. Esiste una zona morale grigia entro la quale si sviluppano questi racconti; ora
l’obiettivo è solo empatizzare, per poter riflettere sulla propria vita. Questo concetto è stato
perfettamente sintetizzato dalle parole di Marco Bellocchio su Il tempo che ci vuole:
“Il tempo che ci vuole dà una risposta, a me personalmente, che nella mia vita non ho saputo
dare. Nel film di Francesca il padre sa rispondere alla figlia mentre io non ho saputo rispondere
a mio fratello gemello. E così la figlia si salva, mio fratello si uccide. È terribilmente semplice.
Il padre, pur malato, si è opposto alla figlia che voleva uccidersi amandola, agendo nei fatti.
Io non ho agito, non sono intervenuto per una mancanza di amore (con tutte le scusanti, questo
ora non mi interessa). Perciò la geniale tragica risposta di mio fratello: ‘Marx può aspettare’
[…].

Ho visto tanti film nella mia lunga vita col lieto fine (nella mia giovinezza il lieto fine era
sinonimo di falsità, di retorica. Una forma di propaganda di chi comandava. Il film doveva
finire bene. La speranza, la positività ecc. ecc.). E Il tempo che ci vuole finisce bene ma è vero,
è bello, non ha nessuna retorica. Ed è (miracolosamente?) positivo. Riabilita, ma non è il solo
film che lo fa, il ‘buon messaggio’.”

Il finale di questi film non è appesantito dalla retorica, dalla necessità di impartire una lezione. Si
concludono con semplicità: i personaggi sono complessi e stratificati, ma la soluzione a volte è più
semplice di quanto non sembri. Bellocchio parla del suo film, Marx può aspettare. Non credo sia un
caso che, poco tempo dopo, sia uscito El Paraíso, aprendo la strada a opere come Il tempo che ci
vuole. La società richiede che queste tematiche vengano trattate, ma non in modo razionale o lineare.
La pulsione rivoluzionaria che portò Bellocchio a girare I pugni in tasca nel 1965 riemerge oggi sotto
forma di documentario con Marx può aspettare. El Paraíso si sviluppa dal documentario di Artale
sul padre, Saro, e compie un passo avanti, approdando alla fiction, rendendola più accessibile al
grande pubblico.

Come una sorta di egemonia culturale, la nuova generazione richiede cineasti capaci di esprimere
cosa sono le relazioni, in particolare quelle familiari, dal punto di vista del nuovo secolo. Così, artisti
come Artale rispondono, rappresentando tutte le complessità del mondo odierno. El Paraíso apre la
strada, dimostrando che non esiste un unico modo di esprimere un concetto, ma molteplici visioni del
mondo. Allo stesso modo, rimuove la necessità del cinema moderno di raccontare una fiaba dove c’è
il bene contro il male, preferendo personaggi sfaccettati che si muovono in una zona grigia.

El Paraíso, e altri film che ne sono seguiti, come Il tempo che ci vuole, ci presenta i nostri genitori,
le nostre radici cinematografiche, rendendole visibili e dichiarate. Poi, come Julio nella scena finale
del film, lentamente le lascia andare. El Paraíso, come I pugni in tasca prima di lui, offre una nuova
visione del mondo. In un momento in cui il cinema italiano si ripiega su sé stesso, come un serpente
che si morde la coda, il film di Artale ci mostra una prospettiva innovativa: un nuovo modo di parlare
delle relazioni, arricchito da una nuova complessità, con uno sguardo sempre privo di giudizio e
retorica.

Diego Matteo Di Gennaro

La necessità dell’Italia di rivedere sé stessa.

Mixed By Erry (S.Sibilia, 2023) segue la vicenda dei fratelli
Frattasio (specialmente Enrico, da cui prende il nome il film)
in un degli episodi più particolari della musica italiana, una
parentesi che partì all’inizio degli anni ‘80 fino ai ‘90, che
tradotto in termini più generali, dall’epoca d’oro delle
musicassette alla diffusione del CD-ROM. Il film segue passo
per passo l’ascesa del business tutto napoletano della
pirateria musicale, che ai tempi (e come si può vedere nel
film) fece esplodere i profitti della semplice “Mixed By Erry”
trasformandola nella casa di distribuzione più importante del
suolo italiano, con cifre che rivaleggiavano testa a testa gli
incassi annui di una qualsiasi casa ufficiale della nazione.
Difatti, il concetto stesso di Mixed By Erry era ben visto
agli occhi dei cittadini italiani, e quando si ragionava se
comprare l’originale o il piratato, era più semplice arrivare
alla seconda opzione, questo per tre motivi: Usciva prima
delle pubblicazioni ufficiali, era disponibile ovunque e la
qualità era sufficiente per l’ascolto (si vocifera che a volte
fosse superiore). In questo caso l’italia come popolazione era
responsabile del fallimento di artisti emergenti, piccole case
e situazioni che si vedevano schiacciate dalla popolarità
della pirateria.

Il film di Sydney Sibilia, oltre che rivedere l’intera storia
dei fratelli, sottolinea un gioco di forze che ancora oggi
esiste, ma in maniera molto più subdola e soprattutto non
fisica (questo fino ad una decina di anni fa), il contrasto
tra pirateria e distribuzione ufficiale, e ne analizza le
caratteristiche per filo e per segno mostrando due forze
(apparentemente impari, con la legalità che si aspetta che
vinca da subito) che combattono per l’autodeterminazione
reciproca, e nel caso di Enrico Frattasio, la realizzazione di
un sogno. Ed in effetti tutta la storia (anche con le sue
ricadute) è un grande sogno, trainato dalla mente ingenua di
un aspirante DJ, l’incarnazione assoluta dell’ego ottimista
degli anni ‘90. Una visione che chiaramente risalta durante
tutto il film, anche nei momenti più cupi, dove ci si aspetta
una ricaduta, è lo stesso Enrico Frattasio (Luigi D’Oriano) ad
alzare il morale mentre ci traina verso la sua storia.
D’altronde “2030” degli Articolo 31 dice proprio così: “Quanta
nostaligia degli anni novanta, quando il mondo era l’Arca e
noi eravamo Noè”

In un modo diverso è il tentativo di ricostruzione di
un’identità, o meglio di una situazione che non si poteva
definire rara al tempo della narrazione, in un’epoca
scombussolata come la fine della guerra, del film Vermiglio
(Delpero, 2024). La pellicola narra in un lungo grande atto
della storia della famiglia Graziadei, con sfondo la fine
della seconda guerra mondiale, la quale incarnazione risiede
solo nei due disertori Attilio, un parente della famiglia, e
Pietro, un soldato siciliano fuggito alle armi grazie al
taciturno patto di amicizia con il primo.
L’ultimo verrà a fare i conti con il suo crescente sentimento
per Lucia Graziadei, la più grande della famiglia, la quale
ricambierà sposandolo e dal quale lei riceverà una figlia, che
Pietro stesso non vedrà mai, perché egli, di ritorno in
Sicilia, farà i conti con la sua prima moglie, la quale, per
salvare l’onore, lo ammazzerà a sangue freddo, lasciando
perire il “bigamo” (Pietro) lontano da Lucia.
Il film vive di lunghe attese e riflessioni, l’intero
linguaggio è quasi analitico e tratta ogni personaggio come
protagonista di una certa situazione, anche se il dramma
principale tra Lucia e Pietro impera (nonostante le
conseguenze di Pietro non riguardino più lui) nella storia.
Ogni inquadratura è trattata come un mosaico di atteggiamenti
e abitudini, comportamenti e tradizioni, difatti, nonostante
l’iniziale alienazione che si ha nei confronti di questa
comunità, quella del paese di Vermiglio (da cui il film prende
il nome), si è presto integrati e assimilati nel ciclo
giornaliero della grande famigliola, fino anche a dare per
scontato appuntamenti e ricorrenze. Pare che la regista stessa
ci metta di fronte ad un monolitico manuale di istruzioni per
ricostruire quell’Italia precedente, oramai perduta,
quell’Italia irresponsabile, incapace di reagire alla
causalità e agli eventi della guerra e successivi, che vive
nell’immensa e silenziosa espressione mesta di Lucia. La donna
abbandonata e macchiata dal marito incosciente e silenzioso,
quasi omertoso, colpevole della sua rovina, la donna che si
rialza e risplende e diviene madre, da sola, e cresce una
figlia bellissima, la piccola Antonia che le strapperà le
lacrime in chiusura. La redenzione stessa della madre, assolve
la passività che Lucia assume per tutta la parte centrale del
film, e risolleva le sorti di una vita fatta di sole
conseguenze inafferrabili, un totale contrario rispetto a
Mixed By Erry, che dimostra invece un’Italia più forte e
capace di controllare il proprio destino.
Entrambi i titoli però si fanno portavoce di un episodio
ciascuno, che potremmo dire “tradizionale” della storia
italiana, riproponendo in una salsa tutta nostalgica (nel
primo) la narrazione ma, allo stesso tempo, intenzionati a
raccontarne i costumi e le peculiarità. Io stesso, al tempo
della visione del film Mixed By Erry, conoscevo molto
vagamente la storia dei Frattasio, e sapevo di aver ereditato
qualche copia di qualche sanremo in musicassetta, ma subito
dopo ho afferrato l’atmosfera del tempo (parzialmente, è
chiaro) e sono riuscito a rendermi conto dell’importanza (o
meno) del nastro magnetico che fortunatamente era
sopravvissuto sino a me.

Un altro film, che però si allontana di miglia dall’identità
italiana, I Dannati (R.Minervini, 2024), vive proprio di
silenzi prolissi e analitici come Vermiglio, ed entrambi
prendono un pizzico di pneuma dal loro predecessore
internazionale Perfect Days (W.Wenders). Un film che si
presenta come se a registrare non fosse un semplice curiosone,
ma un vero e proprio scienziato del quieto vivere giapponese,
un osservatore acuto (quale Wenders è). Data la misera
analogia potrei dire che è fatta, ma invece no. Un titolo
italiano molto più vecchio, il film Futura
(A.Rohrwacher,F.Munzi,P.Marcello, 2021) è un documentario che
inizia ad indagare sull’ Italia giovane, e parla delle
insicurezze e aspettative dei “nuovi” giovani connazionali.
Questo film è esattamente l’incipit di una serie di domande
che pian piano si è insidiata nelle varie produzioni
successive, portando non solo alla trasposizione di episodi
italiani, ma anche lasciando che il popolo meno informato, sia
per negligenza o per impossibilità, conoscesse un’Italia
semplicemente ignorata. Altri titoli, che capitano proprio a
fagiolo in questo interessato quesito sulla situazione
italiana e sull’identità stessa dell’italiano, come Palazzina
LAF (M.Riondino, 2023), Stranizza d’amuri (G.Fiorello, 2023),
Rapito (M.Bellocchio, 2023), e più di tutti C’è ancora Domani
(P.Cortellesi 2023), sono chiare riflessioni su vari episodi o
caratteri di un’Italia ancora controversa e piena di domande,
che necessita assolutamente di rivedersi e non di raccontare
la novità o il contemporaneo. Il film storico diviene attimo
di riflessione per tutti coloro che non conoscono o conoscono
gli avvenimenti, e oltre che a servire per ricordare, è utile
per capire la mappatura di una nazione che si sente persa nel
marasma del nuovo, che travolge la sorte d’una vecchia guardia
cinematografica ma anche di una nuova ondata di cineasti,
coloro che hanno abbandonato il desiderio di distruggere la
madre (contrariamente a I Pugni in tasca di Bellocchio) e ora,
più di ogni altra cosa, scelgono di guardarne bene i connotati
e di osservarli allo specchio, riconoscendo quali (e quali no)
parti del viso condividono con la genitrice apprezzatissima ma
non idolatrata, solamente rivista e riconsiderata, un’analisi
realizzata con dovizia per cercare di identificarsi in questo
nuovo e caotico panorama italiano.

Dunque, si tratta proprio di una rivista, un ritorno a sé
stessi, una pausa di riflessione necessaria prima di chiudere
un capitolo, o di aprirne un altro.
“Diego, vuoi vederti con me la serie sugli 883, Hanno ucciso
l’Uomo Ragno su sky, musicassette, dresscode e anni ‘90”? –
dice mio padre proprio oggi che scrivo.

Emma Pappalardo

Zang tumb tumb

Bam bam, pff. Bam bam, pff. Crac. Sembra una poesia futurista, ma in realtà è la colonna
sonora ripetitiva di una delle più grandi tradizioni del cinema italiano: il cinema che tratta
della classe operaia.
Sono le tavole parolibere che forse, più di tutti, vanno all’osso della questione del lavoro in
fabbrica. Dopo che tutte le parole di senso compiuto scompaiono, davanti al lavoro manuale
e alla fatica fisica, forse sono questi i suoni che rimangono. Sicuramente, sono i suoni che
personaggi come Lulù (La classe operaia va in paradiso, 1971), Mimì (Mimì metallurgico
ferito nell’onore, 1972) e Saverio (Il sindacalista, 1972) stavano a sentire tutti i giorni, da buio
presto a buio tardi, prima di trascinarsi a casa: “Per voi la luce del sole oggi non splenderà!”.
Sono gli stessi suoni che, ancora oggi, accompagnano Isabella (7 minuti, 2016), Luciana (Gli
ultimi saranno ultimi, 2015) e Caterino (Palazzina Laf, 2023): non sono cambiati poi tanto.
Suona la sveglia, caffè, si parte. La routine di un operaio è semplice, almeno all’apparenza.
Quello che non salta subito all’occhio, però, sono gli ostacoli che tracciano il percorso.
Perché sì, il lavoro ce l’hai, le mansioni sono ben delineate, ma basta poco, un niente, per
arrestare il cammino. Che tu sia un operaio infortunato o una donna in gravidanza, i cassetti
dove finiranno i fogli sono diversi. Potresti finire in cassa integrazione, il tuo contratto
potrebbe non essere rinnovato.
“Dobbiamo fare a meno di lei”. È questo quel che Luciana Colacci si sente dire dopo aver
appreso di aspettare un figlio, dopo anni di lavoro in un’azienda tessile. L’unica risposta
possibile è: “Ma sono io che non posso fare a meno di voi”. Tratto dall’omonimo “one woman
show” scritto da Massimiliano Bruno, Gli ultimi saranno ultimi vede Paola Cortellesi nei panni
di una delle tante formichine operaie che cercano di portare i pezzetti di pane a casa, dal
marito che ha come unico scopo il fecondare. Il film ci regala, nella versione ridotta, uno dei
monologhi più disperati del cinema italiano contemporaneo, una voce sola che lotta per farsi
sentire, per dire che anch’essa ha diritto alla dignità. La stessa dignità che, nel 1965,
cercavano anche le madri lavoratrici di Essere donne, documentario di Cecilia Mangini che
scoperchia il mondo della classe operaia al femminile. Un mondo in cui la fabbrica poteva
essere un’arma a doppio taglio, ovvero dimensione in cui sottrarsi al rapporto patriarcale con
la famiglia e con l’uomo, ma anche spazio liminale tra lavoro e morte, sia fisica che
dell’anima, da cui si esce con le ossa rotte.
Cinquant’anni dopo, la situazione sembra essere rimasta uguale. Le lavoratrici di un’azienda
tessile si riuniscono in gruppo per deliberare su una questione apparentemente triviale:
rinnovo del contratto, a patto che la pausa venga ridotta di “soli” sette minuti. Ispirato a una
storia vera e tratto dall’omonimo testo teatrale di Stefano Massini, 7 minuti (regia di Michele
Placido) si pone una domanda. Cosa siamo disposti a fare per mantenere il lavoro? O
meglio, a cosa siamo disposti a rinunciare? Non solo per portare il pane a casa, ma per le
briciole, per le poche concessioni che vengono strappate ai “padroni”. Alla fine, è la più
giovane ad avere il potere di ribaltare la situazione, una ventenne appena uscita da scuola.
L’ultima maglia in una rete di lavoratrici che hanno scelto di esercitare il loro diritto all’essere
umane.

È in Palazzina Laf, film d’esordio di Michele Riondino, che la rete si sfalda. Mentre in un film
come I compagni (1963) Mario Monicelli ci presenta un movimento compatto, seppur
alquanto sgangherato, Caterino è uno che se fa da sé, fa per tre. Anzi, non fa né da sé, né
per tre, perché, appena scopre dell’esistenza del reparto-confino-lager che dà il titolo al film,
coglie subito l’occasione per farvisi trasferire a “scaldar la sedia”. In realtà, quelle persone
sono vittime di mobbing, e l’inazione è il loro mestiere. Caterino è, nella sua realtà nichilista,
quel che Fantozzi è nella caricatura: d’altronde, lo stesso Villaggio fu impiegato di Acciaierie
d’Italia. In Palazzina Laf, dunque, il “Megapresidente” non è solo uno “stronzo”, ma anche un
reo di violenza privata e frode processuale.
Recita l’articolo 4 della Costituzione: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al
lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Ognuno di questi film
attacca il problema da un lato diverso, ma lo scopo finale è lo stesso per tutti, nello spazio e
nel tempo. Un discorso che percorre il cinema italiano fin dagli esordi del sonoro, che
tutt’oggi continua a raccontare sempre le stesse storie di resistenza, e che continuerà a farlo
fino a che qualcosa non cambierà.
Forse, il futuro, sarà una donna incinta che punta una pistola. O una ventenne che vota. O
un ragazzo con lo zainetto.

Laura Bonfanti

Nuove direzioni del cinema italiano: riflessioni su Mi fanno male i capelli e Marcello mio

Da molti anni il cinema italiano, fatta eccezione per alcuni esempi isolati riconosciuti anche all’estero,
sembra aver smarrito una direzione identitaria precisa. Questo, nel tempo, ha dato sfogo a continui cliché
nelle rappresentazioni filmiche da parte di registi e diffuso tra il pubblico il borioso (ma veritiero)
ritornello di quanto il vecchio cinema italiano fosse meglio del nuovo. Il problema non sta nella carenza
di autori (Sorrentino, Garrone, Rohwacher, solo per citarne alcuni), quanto piuttosto nel cinema «medio».
In Italia si è accentuata sempre di più la spaccatura tra cinema d’autore e cinema commerciale. In questo
scenario di mancati o ridotti finanziamenti per chi rimane fuori dai grandi circuiti di produzione, occorre
dare giusta visibilità a quei film che si collocano, grazie al loro linguaggio e alla loro poetica, in un territorio
di mezzo fertile e aperto a continue contaminazioni. Mi fanno male i capelli di Roberta Torre è uno di questi
rari esempi. Si tratta di un film delicato, con pochi personaggi, in grado di viaggiare nel tempo e di
padroneggiare il non-detto/non-mostrato rendendolo pregnante di significato.
Mi fanno male i capelli esce nelle sale italiane il 19 ottobre 2023 distribuito da IWonder Pictures. La
protagonista Monica, per colpa di una malattia, comincia ad avere vuoti di memoria, a non riconoscere
le persone più vicine a lei e persino a dimenticare nomi comuni come “finestra”. Assistita dal marito
Edoardo (Filippo Timi), Monica alterna momenti di lucidità a episodi di spaesamento e confusione. La
visione casuale del film La notte di Antonioni segna in lei l’inizio di un processo di identificazione
nell’attrice Monica Vitti. Il cinema riesce così a plasmarle una nuova identità, mentre la realtà intorno a
lei continua a sgretolarsi. Comincia dunque a imparare i dialoghi a memoria, a interagire con gli attori
sullo schermo e a travestirsi, dando vita a una vera e propria metamorfosi. Il marito di Monica, ormai
sempre più incapace di comunicare con la moglie, riesce così a trovare un modo per starle accanto
assecondando le sue fantasie ed entrando nello spazio della finzione del cinema.
Il significato può essere interpretato in vari modi grazie ai suoi diversi piani di lettura: una vicenda privata,
un riferimento alla malattia e alla recente scomparsa dell’attrice Monica Vitti, ma anche una riflessione
meta-filmica su come il cinema italiano debba ripartire dal passato plasmandolo in una forma nuova
adatta al proprio tempo. Mi fanno male i capelli non attinge solo dalla tradizione passata del cinema italiano,
ma mostra tangenze anche con la commedia francese per i toni surreali e sognanti alternati a momenti
più drammatici.
Marcello mio, diretto da Christophe Honoré, potrebbe creare un dialogo transnazionale con l’opera di
Roberta Torre. Con una produzione italo-francese, Marcello mio viene distribuito da Lucky Red nelle sale
italiane il 23 maggio 2024. Agli attori è chiesto di interpretare loro stessi. Chiara Mastroianni è impegnata
nella realizzazione di un film con Fabrice Luchini diretta da Nicole Garcia, quando, durante le riprese, la

regista le suggerisce di recitare un po’ più come suo padre Mastroianni e meno come sua madre, Catherine
Deneuve. Questo evento scatena una reazione immediata nell’attrice: travestirsi per assomigliare al padre
e iniziare a farsi chiamare Marcello. La metamorfosi non si limita all’abbigliamento, ma si spinge fino
all’immedesimazione completa. Le reazioni delle persone intorno a Chiara/Marcello non sono mai
totalmente incredule o spiazzanti, come nel caso della madre/ex compagna Catherine Deneuve, che arriva
addirittura, in un momento di poca lucidità, a identificare la figlia con l’ex compagno. Marcello rivive,
parla in italiano e va a zonzo per le strade notturne di Parigi, ammaliando tutti con il suo charme e la sua
ironia. Chiara/Marcello partecipa addirittura come ospite in una trasmissione RAI italiana, condotta da
Francesca Fialdini, insieme ad altri falsi sosia di Mastroianni, per poi essere identificata come unico
autentico Marcello da Stefania Sandrelli. Si tratta di un sottotesto appena accennato su come il cinema si
ritrovi a imitare sempre di più la televisione fagocitandone le caratteristiche di serialità, intrattenimento e
strumentalizzazione del passato e dei sentimenti più intimi.
La crisi identitaria della Mastroianni viene affrontata e curata attraverso il cinema e il ricordo di suo padre.
Il suo ruolo però va oltre la dimensione privata e si estende a una riflessione sul concetto dell’io, di
attorialità e di iconicità. L’obiettivo di Honoré è riflettere su come l’identificazione in qualcun altro possa
arricchire la propria individualità senza rappresentare per forza una gabbia. Non solo, Chiara sente
vacillare la sua identità perché forse il cinema francese (seppure in misura minore di quello italiano) ha
perso la propria e non può garantirle un appiglio sicuro.
Anche Mi fanno male i capelli si fa portatore di questo discorso: per ritrovare la propria identità bisogna
riflettere sul passato. Il cinema è qualcosa destinato a restare nella memoria, rafforzata anche grazie alle
sue icone. L’attorialità porta spesso con sé narcisismo (non necessariamente in chiave negativa) e
desiderio di emergere e di essere ricordati. Le protagoniste dei due film, Monica e Chiara sembrano essere
coscienti di una dissoluzione imminente, e capiscono di potere salvarsi solo grazie al cinema e ai suoi
modelli del passato. Gli attori interpretano personaggi che interpretano altri attori. Si genera così un gioco
di matriosche, tra persone e personaggi, finzione e realtà, dando vita a un discorso ancora più ampio: il
lavoro sulla maschera e la possibilità di modificare e trasformare il proprio corpo in un viaggio alla ricerca
della propria identità. È un aspetto condiviso da entrambi i film, due portavoce di una riflessione su cosa
succede quando la maschera si fonde con la persona che la indossa e sulle conseguenze di questo su chi
è intorno. Proprio in Marcello Mio i personaggi tentano continuamente di sfuggire alla sceneggiatura e di
rendersi sempre più indipendenti, come se ognuno di loro piano piano riuscisse, confrontandosi con
Chiara/Marcello, a ritrovare se stesso. Lo stesso accade, nel film di Roberta Torre, al marito di Monica,
Edoardo, che accetta di indossare una maschera come sua moglie per poterla finalmente comprendere e
starle accanto.

Mi fanno male i capelli e Marcello mio sono due racconti che intrecciano realtà e finzione come se l’una non
potesse esistere senza l’altra creando continuamente zone liminali dove è difficile stabilire cosa avvenga
in un territorio e cosa nell’altro. Sebbene vi siano apparenti scelte in direzione documentaria, il punto di
vista è molto personale e distorsivo, in un caso per la parentela di Chiara con Marcello, nell’altro per una
malattia che altera il mondo circostante di Monica.
La forza di Mi fanno male i capelli è dimostrare che un nuovo modo di pensare l’opera filmica in Italia è
possibile. Pier Maria Bocchi, in un saggio dal titolo Dove sono le immagini? Alla ricerca di un cinema queer
italiano individua alcuni limiti nel cinema italiano.
le immagini dovrebbero interrogarsi, non sono una specie protetta. Augurerei al cinema queer italiano di
scappare dalla propria sede e scegliere l’estasi del disorientamento, il pericolo e i rischi dell’autoerotismo.
Da noi sono in pochissimi che osano autocontemplarsi.1
Roberta Torre, come Honoré in Francia, dimostra come un nuovo cinema queer italiano sia possibile. La
sua opera riesce a porre al centro una riflessione meta-cinematografica e un’apertura alla contaminazione,
legata ai modelli passati, e ai modelli cinematografici transnazionali. Non solo, il linguaggio di Roberta
Torre è fatto di binomi opposti sempre coesistenti: realtà-finzione, tragedia-commedia, oblio-memoria.
In questo film la regista porta all’estremo i dualismi, senza mai risolverli, perché tali sono destinati a
restare. L’identità del nuovo cinema italiano, forse, deve proprio tendere alla queerness, ossia l’assenza di
confini polarizzanti e costringenti.

1 Pier Maria BOCCHI, Dove sono le immagini? Alla ricerca di un cinema queer italiano, in «Atlante del cinema queer contemporaneo.
Europa 2000-2020», a cura di Andrea INZERILLO, Milano, Meltemi editore, 2023, p. 239.

Lorenza Valle

La sopravvivenza delle immagini tra fiction, documentario e biopic

Il cinema si nutre di cinema: sembra una ricetta già sperimentata, un’abitudine consolidata, fin da
quando, cinquant’anni fa, Ettore Scola smarcava la commedia all’italiana dall’etichetta di filone
disimpegnato ed eversivo, con il capolavoro C’eravamo tanto amati. I riferimenti al panorama
mediale, con la sua eminente componente visuale, costellano l’intera pellicola, fino a suggerirci che
la materia magmatica della storia contemporanea non può che essere plasmata dal potere rivelatore e
ordinatore del cinema, in grado di gettare, con malinconica lucidità, una lente su una realtà che non
cambia ma ci cambia. Dalla riproduzione della celebre sequenza ejesensteiniana della scalinata, alla
ricostruzione del set de La Dolce Vita, passando per la presenza del leggendario Aldo Fabrizi che,
insieme ai riferimenti a Ladri di Biciclette, evidenzia l’ingombrante eredità del neorealismo, tutto
concorre a far pensare che ciò che resta da fare ai cineasti sia un cinema che omaggia la tradizione ed
è permeato da se stesso perfino nelle espressioni linguistiche (“Non fare scene madri!” “È una replica
di una commedia meno di successo”).
Quest’urgenza sembra essere oggi, di fronte a un generalizzato smottamento dei punti di riferimento
culturali, ancora più fervente, al punto da delineare una tendenza. A emblema di questa propensione
può essere assurto un film del 2023 dal titolo Mi fanno male i capelli, di appena 83 minuti – in
controtendenza, per quanto concerne la durata, rispetto a tanta lungaggine delle opere contemporanee.
A Monica (Alba Rohrwacher) viene diagnosticata la sindrome di Korsakoff, colpevole di disperdere
e pervertire i ricordi autentici. La donna non può che tentare di contrastare la minaccia dell’oblio della
propria identità e di rammendare i lacerti del proprio vissuto. In suo soccorso arriva
provvidenzialmente la figura di Monica Vitti, che le permette di perimetrare un cerchio magico di
labile felicità, grazie al gioco della rappresentazione, in cui è coinvolto anche il marito Edoardo
(Filippo Timi). Quale condanna sarebbe ricordare ogni minuzia, ogni scorno e ogni bruciante ferita
della propria esistenza? Eppure, questo film ci mette di fronte al nostro impellente bisogno di
collezionare gelosamente i ricordi e all’evidenza che quel che più temiamo della morte è la sua natura
di dissipatrice del passato, piuttosto che quella di ladra del futuro.
Roberta Torre si staglia con uno sguardo innovativo nel panorama italiano. Suole inquadrare il sud in
mitologie shakesperiane come in Sud Side Story e Riccardo va all’Inferno e arriva a concedersi alla
favola ne I baci mai dati, adocchiando un realismo magico che pure persiste in Mi fanno male i
capelli. Dopo il recente omaggio alle donne transgender (Le Favolose), Torre firma un tributo ancora
una volta orgogliosamente femminile a Monica Vitti, ma soprattutto al potere dell’’immagine, che
colma vuoti neppure tangibili dalla parola. Davanti alla confusione verbale di Monica, che a tratti
perde la capacità di associare un termine al proprio referente, il cinema fa riaffiorare il sommerso e
può risanare le connessioni con il reale. La componente visiva dei film che incantano la protagonista
viene replicata anche nella pioggia di colori dei costumi e nella varietà delle acconciature, ma le
battute devono essere annotate, sussurrate ossessivamente con il timore di dimenticare ogni istante
qualcosa. Il film gioca con forme ecolaliche, rewind delle pellicole, vasi di rose che troneggiano come
immagini ottiche pure, frasi ricorrenti accompagnate dalla musica di Shigeru Umebayashi – il
compositore di In The Mood For Love – che le rende fantasmatiche, quando non sospese in
un’entropia temporale. La pellicola attinge a piene mani al patrimonio della storia del cinema,
includendo frammenti di Limite di Mário Peixoto, Quando l’occhio trema di Paolo Gioli e Le
tempestaire di Jean Epstein. Il richiamo più immediato è alla trilogia dell’incomunicabilità di
Antonioni, con la quale il film sembra condividere la predilezione per l’interesse atmosferico su
quello diegetico, senza l’ambizione di svelare il recondito, e trova nella riproposizione di celebri

sequenze de La notte il proprio contraltare, in cui il tempo è indagato nella sua diacronicità. I
personaggi sono spesso schermati, ora dal vetro di una porta che rende i corpi diafani e deformati, ora
dai fili di una recinzione mentre Monica, sulla spiaggia di Sperlonga, è colta in un deambulare
disorientato e, ancora una volta, antonioniano. La donna inizia a dialogare con la propria omonima
(diva dell’incomunicabilità, ma irriducibile comunicatrice) o con Alberto Sordi, accanto a lei in
Polvere di stelle. L’interlocuzione con i materiali d’archivio si fa allora sistematica e prevede anche
il passaggio di oggetti tra personalità reali e finzionali attraverso una televisione, a suggellare lo
statuto di verità del rapporto tra Monica e il suo alter ego o i volti noti che le gravitano attorno.
L’omaggio all’attrice non risponde all’esclusivo desiderio di ricordarla in occasione della sua
scomparsa, ma ha evidenti ragioni diegetiche: l’indimenticabile Vitti, del resto perdeva le cose, o
forse, nel suo gioioso disordine, lasciava tracce di sé per non essere dimenticata, ma avrebbe voluto
conservare tutto ed essere ogni donna possibile, proprio come Giuliana, che ne Il Deserto Rosso
pronuncia la bizzarra frase titolo. Mi fanno male i capelli parrebbe contenere, almeno in nuce, due
linee di orientamento del cinema contemporaneo, che afferiscono alla suddetta inclinazione al
citazionismo, quando non al riuso di materiale preesistente. Da una parte vi è la profusione di biopic.
Se Torre non si inserisce in quest’alveo, ha il comun denominatore dell’attraversare successi e
fragilità di una diva. Si sprecano le parabole di artisti (Caravaggio – L’anima e il sangue, Volevo
nascondermi, dedicato ad Antonio Ligabue) di musicisti e cantanti (Enzo Jannacci – Vengo anch’io,
Fabrizio De André – Principe Libero, Maria) di personaggi politici (Berlinguer – La grande
ambizione), in una consuetudine che tocca anche la serialità, dalla produzione Sky sugli 883, alla
miniserie Rai su Mike Bongiorno. È forse la spia di un cinema claudicante che non può che reggersi
su capisaldi indiscussi – anche pop – della cultura?
La creatività sfrenata e scardinata dal preesistente è vilipesa, forse concepita come un salto nel vuoto
che decreterebbe la temerarietà o la spavalderia di un autore. La dignità di un’opera parrebbe allora
risiedere nel suo pre-testo, a volte una vera e propria opera letteraria che legittimi quella filmica.
Proliferano allora, in repliche non sempre all’altezza dell’autentico, La bella estate di Pavese o Una
questione privata di Fenoglio, accanto a fiction o documentari che celebrano la vita dei poeti in un
intervallo temporale che si dipana dal primo Ottocento (Leopardi ne Il giovane favoloso) alla
contemporaneità (Patrizia Cavalli ne Le mie poesie non cambieranno il mondo), con l’inevitabile
attraversamento del monolite D’Annunzio (Il cattivo poeta). Nell’orizzonte sommariamente
descritto, in cui non mancano le storie di illustri sconosciuti (Mixed By Erry) o le grandi personalità
scrutate da piccole fenditure temporali (il recentissimo Modì – Tre Giorni sulle Ali della Follia), non
si può escludere la rinnovata attenzione, a cento anni dalla sua nascita, per un immortale Mastroianni,
al quale è dedicata l’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma e il cui fascino, oltre a
troneggiare nel documentario Ciao Marcello – Mastroianni l’antidivo!, rifulge, seppur
indirettamente, nella coproduzione italofrancese Marcello Mio di Christophe Honoré. Come
nell’operazione attuata da Roberta Torre, a essere indagata è un’identità femminile, quella di Chiara
Mastroianni, la cui autodeterminazione ha fatto i conti con un’eredità genitoriale imponente, tra i due
fuochi Mastroianni e Deneuve. Chiara è giunta a una mimesi con il padre, a una sorta di
transustanziazione, in un film sospeso nell’intervallo tra fiction e non fiction, in cui tutti i personaggi
interpretano sé stessi. L’esito non è dissimile da quello di Alba Rohrwacher nei panni di Monica, che
supera la sfida di lavorare a un tempo alla costruzione di un personaggio e allo sgretolamento della
sua identità. Questo viaggio tra sogno e memoria (strada già battuta, ad esempio, in Ricordi? di Mieli)
indica una seconda via: la tendenza a mescolare diario e cronaca, finzione e found footage, unendo
materiale di repertorio e archivi e rendendo sempre più labile il confine tra invenzione e
documentario. La linea di demarcazione tra filmico e profilmico è sfumata in virtù di
un’indistinguibilità e una reciproca osmosi tra storia e rappresentazione, consonante con quella di

C’eravamo tanto amati e descrivibile solo con un ambiguo boh. Tra le produzioni risalenti agli ultimi
due anni gli esempi si sprecano: da Vera, a Svegliami a mezzanotte, da Basilico – L’infinito è là in
fondo a Kissing Gorbaciov.
Malgrado tutti gli sforzi di preservare la realtà dall’oblio, però, la smania di archiviare
meticolosamente gli eventi è frustrata e oscena, nel suo senso etimologico di non attuabile in scena,
perché è connaturato al cinema il procedere per ellissi, stacchi di montaggio, tendenza alla
brachilogia. La natura fantasmatica del dispositivo, quella di sopravvivenza spettrale, inoltre, è un
tutt’uno con la distruzione: le innumerevoli immagini prodotte quotidianamente dalla società dello
spettacolo (per citare Guy Debord) sembrano destinate a disperdersi nell’etere, mentre l’umanità ne
è via via più anestetizzata, restando indifferente anche davanti alla foto del cadavere di un giovane
migrante riverso sulla sabbia. Ed ecco che il cinema può, selezionando dal magma caotico, diventare
anche un’Erotica, il desiderio di far sopravvivere un’immagine, documentaria o finzionale, di
indirizzare gli occhi ostinatamente sul mondo, di non guardare altrove.

Mattia Barella

Il Suicidio nel Cinema Contemporaneo Italiano


Il suicidio è uno dei temi più complessi e enigmatici che l’arte, la letteratura e il cinema
abbiano mai cercato di rappresentare. L’ambiguità intrinseca di un atto che è insieme
una negazione della vita e un’affermazione del controllo sulla propria esistenza
rappresenta una sfida tanto per gli spettatori quanto per i cineasti. Nel cinema italiano
contemporaneo, dagli anni ’80 a oggi, il tema del suicidio è stato affrontato in maniera
sempre più sottile e poliedrica, riflettendo i cambiamenti storici, sociali e politici del
paese. Film come “Il Primo Giorno della Mia Vita” (2023) di Paolo Genovese sono
solo l’ultimo esempio di una tradizione cinematografica che ha saputo esplorare i
labirinti interiori dell’animo umano, offrendo visioni sfaccettate e potenti sul significato
della vita e della morte.

Gli anni ’80: un periodo di crisi e trasformazioni sociali
Gli anni ’80 sono stati caratterizzati da una profonda crisi economica e politica in Italia.
Dopo gli anni di piombo e il declino del boom economico, il Paese ha vissuto un
periodo di disillusione e incertezza. Questa atmosfera si è riflessa anche nel cinema,
dove registi come Marco Bellocchio e Nanni Moretti hanno scelto di esplorare il tema
del suicidio come risposta alla sensazione di perdita e di isolamento.
Nel film Gli occhi, la bocca (1982) di Marco Bellocchio, il suicidio del fratello del
protagonista diventa l’evento catalizzatore che spinge i personaggi a confrontarsi con
il senso di vuoto e di disperazione che pervade la loro vita. Bellocchio utilizza il
suicidio non solo come una rappresentazione della crisi personale del personaggio, ma
anche come metafora della crisi collettiva che attraversava l’Italia in quel periodo. Il
suicidio diventa un modo per esprimere l’impotenza e la disillusione di una generazione
che si sente tradita dalle promesse del progresso e del benessere.
Nanni Moretti, nel suo film La messa è finita (1985), affronta il tema del suicidio in
modo diverso. La storia segue Don Giulio, un giovane sacerdote che torna nella sua
città natale solo per scoprire che i suoi amici e familiari stanno vivendo situazioni di
profonda infelicità. Il suicidio di uno dei personaggi è presentato come il culmine di
una serie di fallimenti personali e sociali. Moretti utilizza il suicidio per mostrare il lato
oscuro del conformismo e dell’alienazione, evidenziando la difficoltà di trovare un
significato in un mondo che sembra aver perso la propria direzione morale.

Gli anni ’90: individualismo e crisi d’identità
Negli anni ’90, l’Italia è stata segnata da un’ondata di cambiamenti politici e culturali,
con la fine della Prima Repubblica e l’avvento di un nuovo panorama mediatico e
politico. Il cinema di questo decennio riflette un senso di disgregazione e di perdita d’identità, con il suicidio spesso rappresentato come un atto di estrema ribellione contro
un mondo percepito come opprimente e insensibile.
Nel film Caro diario (1993) di Nanni Moretti, il suicidio appare come un elemento che
testimonia la difficoltà dell’individuo di adattarsi a una società che cambia
rapidamente. Moretti utilizza un registro ironico e intimista, ma non evita di mostrare
la tragedia e il dolore che accompagnano il gesto estremo. In questo film, il suicidio è
rappresentato come il fallimento di un sistema che non riesce a fornire supporto e
comprensione agli individui più fragili.
Un altro esempio significativo è Luna e l’altra (1996) di Maurizio Nichetti, dove il
suicidio è rappresentato in modo surreale e metaforico. Il film racconta la storia di una
maestra elementare che vive un’esperienza fuori dall’ordinario quando la sua ombra
prende vita. L’aspetto del suicidio viene affrontato con un tono che oscilla tra il comico
e il tragico, mostrando la difficoltà di conciliare le diverse parti di sé in un mondo che
non lascia spazio all’introspezione e alla complessità personale.

Anni 2000 e oltre: la globalizzazione e la disillusione
Con l’inizio del nuovo millennio, il cinema italiano ha dovuto confrontarsi con le sfide
della globalizzazione, della precarietà economica e delle nuove forme di
comunicazione. In questo contesto, il suicidio è spesso rappresentato come una
conseguenza della pressione sociale e della mancanza di prospettive future, soprattutto
per i giovani.
Nel film La meglio gioventù (2003) di Marco Tullio Giordana, il suicidio è presentato
come un atto di disperazione di fronte all’impossibilità di cambiare il corso della
propria vita. La storia segue le vicende di una famiglia italiana dagli anni ’60 ai primi
anni 2000, e il suicidio di uno dei personaggi rappresenta il fallimento delle speranze
e delle ambizioni di una generazione che aveva creduto nella possibilità di un
cambiamento sociale significativo. Giordana utilizza il suicidio per sottolineare il
contrasto tra le aspettative giovanili e la realtà di un mondo che sembra offrire sempre
meno opportunità.
Un altro film emblematico è Miele (2013) di Valeria Golino, che affronta il tema del
suicidio assistito. La protagonista, interpretata da Jasmine Trinca, aiuta persone malate
terminali a porre fine alla propria vita, ma si trova di fronte a dilemmi morali quando
un cliente le chiede di aiutarlo nonostante non sia malato fisicamente. Il film esplora il
confine sottile tra il desiderio di autodeterminazione e la disperazione, ponendo
domande difficili sul valore della vita e sulla libertà di scelta. In Miele, il suicidio è
presentato come un atto complesso e ambiguo, che riflette le contraddizioni della
società contemporanea di fronte al tema della morte.
Con l’opera Il primo giorno della mia vita (2023), Paolo Genovese affronta il tema in
modo originale e profondo. La storia segue quattro personaggi che, in momenti diversi delle loro vite, decidono di togliersi la vita. Tuttavia, un misterioso sconosciuto offre loro la possibilità di vedere cosa accadrebbe dopo il gesto estremo, concedendo una settimana per osservare come la loro assenza influenzerebbe il mondo intorno che “va
avanti, va avanti comunque”. Genovese utilizza questa premessa per esplorare il
significato della speranza, della connessione umana e della possibilità di ricominciare.
Il primo giorno della mia vita presenta il suicidio non solo come un atto di
disperazione, ma anche come un punto di svolta che può portare a una nuova
consapevolezza e rinascita.

Conclusione
Sia che si creda al suicidio in una concezione leopardiana come unica soluzione per
trovare quiete, felicità e colmare l’insoddisfacente vuoto, sia che si creda al suicidio
come sconfitta, perdita dei piaceri della vita e puro atto egoista il cinema
contemporaneo italiano offre una rappresentazione complessa e sfaccettata del
malessere umano, riflettendo le trasformazioni sociali e culturali. Dall’alienazione e
disillusione degli anni ’80, passando per la crisi esistenziale e l’incomunicabilità degli
anni ’90 e 2000, fino ai recenti film che esplorano la vulnerabilità e il bisogno di
comunità, il cinema ha offerto uno specchio potente e doloroso delle difficoltà
individuali e collettive.

Nicole Valentini

NEO-DECADENTISMO: una tendenza culturale di nuovo attuale


Il cinema è, da sempre, uno specchio della società, uno strumento attraverso cui si riflettono
le aspirazioni, le paure, i bisogni e le mancanze dell’uomo e della collettività in cui vive.
Questa funzione riflessiva si manifesta in tutte le epoche e in tutti i luoghi, ma assume
sfumature e significati diversi a seconda del contesto storico-culturale. Nell’Italia di oggi, il
cinema sembra sempre più orientato a mettere al centro figure sensibili, sole, alienate, che
si trovano in contrasto con l’ambiente circostante, incapaci di accettare la realtà e di
omologarsi a essa. Questa tensione tra individuo e società scatena sentimenti e
caratteristiche tipiche del Decadentismo, movimento letterario e culturale di fine 800 che
oggi, seppur in una veste rinnovata, trova espressione in una tendenza artistica o culturale
che si potrebbe definire Neo-Decadentismo.
L’idea che “la forma è formante” indica che l’ambiente non solo ospita, ma modella
l’individuo, delineandone la natura e le reazioni. È proprio nel cinema italiano recente che
ritroviamo figure di protagonisti oppressi e modellati dall’ambiente in cui vivono, costretti a
mascherarsi per aderire alle norme sociali, pur senza mai accettarle veramente. In Dogman
di Matteo Garrone (2018), ad esempio, il protagonista Marcello viene annientato da un
ambiente ostile e degradato, rappresentato da un paesaggio brutalista, privo di colore, che
riflette la durezza della realtà in cui vive. Marcello si trova costretto a trasformarsi in
qualcosa che non è per sopravvivere, scegliendo di compiere un atto estremo di violenza
come una via di riscatto e rispetto. È in questa maschera imposta dall’ambiente che si
mescolano realtà e visione sociale, in un contesto in cui il singolo deve adattarsi alla
distorsione collettiva della società stessa.
Il rapporto tra lo spazio e i personaggi diventa spesso il perno delle narrazioni
cinematografiche, dove è lo spazio stesso a dettare le regole di un sistema sociale in cui gli
individui sono spinti a indossare maschere e a vivere secondo ruoli convenzionali. In questo
senso, il cinema di Alice Rohrwacher e il Realismo Magico (o realismo allegorico)
contribuiscono a sottolineare la difficoltà del far combaciare queste due componenti
fondamentali per la formazione dell’individuo. Qui memoria e spiritualità diventano elementi
centrali. Nei suoi film, i protagonisti sono viandanti alla ricerca di un significato più profondo,
di una verità nascosta nella routine quotidiana che possa giustificare la loro esistenza. La
Chimera e Lazzaro Felice raccontano storie di persone incapaci di adattarsi al mondo che li
circonda, estranee ai rapporti sfibranti e scarni della loro comunità. Entrambi i protagonisti
vivono in piccoli gruppi rurali, ancorati a una realtà agreste e tradizionale, eppure avvolti in
una dimensione che oscilla tra il mitico e il grottesco, creando un’atmosfera grottesca tra il
fiabesco e l’alienante.
Un esempio simile si ritrova in Misericordia (2023) di Emma Dante, ambientato nell’arida
terra siciliana, dominata dall’ombra del vulcano, dove si sviluppa una comunità di donne
ferite dalla durezza del loro contesto, unite da questo sentimento di rassegnazione, forti e
fragili al tempo stesso. L’unico personaggio che riesce a sfuggire dalla miseria è Arturo, un
essere puro e ingenuo che non riesce a sopportare il peso dell’ingiustizia e della povertà che
lo circondano. È un cinema che racconta personaggi in bilico, sospesi in una realtà che
appare immobile, stratificata, e che cerca la libertà in una dimensione intangibile, in un
contatto con l’umanità spezzata e sempre più fragile di oggi.

Questa fragilità dell’essere umano contemporaneo è la conseguenza della “cultura del
vincente”, tipica dell’era moderna, in cui il successo diventa una maschera dietro
nascondersi. L’individuo, infatti, tende a celare la propria essenza agli altri, rifiutando ogni
forma di esposizione autentica al mondo. Così facendo, l’uomo moderno si ritrova isolato,
rinchiuso nella propria individualità, trovando nell’isolamento una forma di difesa verso un
mondo che richiede connessioni costanti, ma che non permette una reale vulnerabilità. In
questo contesto, il concetto di “maschera” pirandelliana è ancora attuale e si manifesta in
maniera evidente nel cinema: la maschera non è solo un espediente narrativo, ma una
modalità per rivelare l’essenza del personaggio, che si svela progressivamente,
permettendo al pubblico di scorgere il mondo che il soggetto filmico percepisce, e non come
appare sullo schermo.
Uno dei temi centrali di questo Neo-Decadentismo è la solitudine, condizione onnipresente
nell’era contemporanea, che porta l’individuo a frammentarsi e a disperdersi tra schermi,
informazioni, stimoli, aspirazioni e figure stereotipate. Personaggi come Patrick (La
Chimera), Lazzaro (Lazzaro Felice), Monica (Mi Fanno Male i Capelli), e Arturo
(Misericordia) rappresentano anime vaganti, composte e integre, che vivono tra due mondi
paralleli. Da una parte, c’è la società convenzionale, con le sue regole imposte dall’esterno;
dall’altra, c’è la loro verità interiore, una dimensione intima e personale, accessibile solo a
loro. È proprio in questo spazio interiore che i protagonisti trovano la libertà e l’essenza di se
stessi: Patrick riesce a esprimersi quando entra in contatto con le anime custodite nelle
tombe etrusche; Monica, mascherandosi e giocando con la propria immagine, si riappropria
della sua essenza indossando i panni di un mito, quale Monica Vitti, ricreando scene di
alcuni suoi film noti al pubblico italiano (e non) superando il tedio della quotidianità; Lazzaro,
pur consapevole della sua estraneità dai compagni, dalla città e dalla modernità, rimane
accanto a coloro che reputa la sua famiglia, cercando di adattarsi alle loro scelte di vita ma
invano, finendo per sacrificare se stesso, raggiungendo la pace.
Questi mondi paralleli spirituali e privati “non sono fatti per gli occhi degli uomini”, eppure
rappresentano il fulcro dell’essere umano contemporaneo, che ha bisogno di attribuire un
significato profondo alle proprie azioni e decisioni. Altrimenti, si finisce per essere un
individuo come tutti gli altri, una maschera tra mille maschere che compongono la massa
nella società globalizzata e iperconnessa. Questa sfiducia verso il sistema contemporaneo
evoca una nostalgia per il passato, per le comunità immerse nella natura, per i legami
familiari e le vite semplici. In questo contesto emerge il recente Vermiglio di Maura Delpero
(2024), che sembra richiamare un’atmosfera decadente e nostalgica, riportando in vita il
ricordo di un passato percepito come funzionante, pacifico e solidale. È un richiamo a un
tempo in cui la vita aveva una dimensione collettiva, ma che allo stesso tempo limitava
l’individuo nelle sue possibilità di crescita e affermazione.
Siamo, in definitiva, dei Neo-Decadenti. Viviamo in un’epoca ultra-sensoriale, consapevoli
della nostra malleabilità e della fragilità della nostra condizione umana. Avvertiamo la
vicinanza della fine di un’epoca, che si manifesta nella nostra insoddisfazione, nella pigrizia
delle nuove generazioni, nella noia e nella comodità che riempiono la quotidianità, e nella
nostra incapacità di immaginare un futuro diverso dallo scenario distopico, ormai visto e
rivisto. Come nel Decadentismo storico, anche l’arte contemporanea assume un
atteggiamento estetico disinteressato, tornando a una concezione dell’“arte per l’arte”, dove
l’opera acquisisce valore e la magia dell’arte rimane accumulata all’interno dei musei, o delle gallerie . Il cinema italiano contemporaneo, con il suo sguardo attento e sensibile, diventa
allora il portavoce di questo Neo-Decadentismo, che esplora le fragilità dell’uomo moderno, i
suoi desideri inappagati, della sua sfiducia verso il futuro e della nostalgia per un passato
idealizzato.

Sofia Racco

“Agli archeologi, custodi di ogni fine»: il cinema italiano contemporaneo, tra
memoria e mito”

Il cinema italiano d’autore degli ultimi anni sta maturando un interesse sempre più organico e
consistente nei confronti delle zone d’ombra del passato: a partire da «La chimera» e da altri film di
Alice Rohrwacher (in particolare «Lazzaro felice» e i due corti realizzati con JR «Omelia contadina
e «Allegoria urbana» lo sguardo del cinema italiano contemporaneo sviluppa la doppia visione
propria dell’archeologo e dell’antropologo. Dell’antropologo per l’attenzione verso le
manifestazioni visibili della comunità umana e delle sue specificità attraverso la messa in scena di
elementi del folclore e del mito, mentre lo sguardo dell’archeologo si cristallizza nella fascinazione
per le rimanenze di un tempo antico, per i relitti arcaici che hanno attraversato il tempo e sono
sopravvissuti al presente.
Quest’aspetto archeologico diventa il fulcro del racconto de «La chimera», dove il protagonista,
Arthur, è un giovane archeologo inglese che si ritrova a far parte di un gruppo di tombaroli nella
Tuscia degli anni Ottanta: il film di Rohrwacher è un viaggio onirico all’interno del mondo funebre
degli Etruschi e dei pericoli che si corrono quando lo sguardo umano viola con arroganza il mondo
arcaico dei defunti. «La chimera» condensa dentro di sé una tendenza che serpeggia nel cinema
italiano contemporaneo e che sta conoscendo una particolare fioritura negli ultimi anni e che si può
sintetizzare in una generale fascinazione per il passato e per tutto ciò che ruota intorno ad esso,
dall’archeologia, all’antropologia fino ad arrivare al mito.
Il vero punto focale dello sguardo del cinema italiano contemporaneo non è tanto il passato in sé,
quanto ciò che del passato permane nel presente, sia in modo manifesto ma soprattutto in modo
sotterraneo, nascosto. Qui la macchina da presa assume la sua valenza archeologica nel dissotterrare
queste tracce di persistenza, partendo dall’oggetto, dal fatto, dall’immagine isolata, dal frammento
per ricostruire una narrazione alternativa, una suggestione antica che ci dica qualcosa di nuovo su
cosa siamo, cosa pensiamo e come esistiamo. Quali narrazioni costruiamo per giustificare la nostra
esistenza sulla Terra? E attraverso quali storie si forma la nostra identità individuale e collettiva?
Cos’è che si nasconde dietro la patina solenne e magnifica della leggenda, della mitologia,
dell’epica? Queste nuove figure di registi-antropologi e di registi-archeologi partono alla ricerca di

nuove piste da seguire per ripercorrere il passato, ribaltare le narrazioni, creare degli squarci
attraverso i quali guardare ciò che si nasconde sotto la superficie.
Alcune pallide tracce di questa tensione verso ciò che è profondamente umano, l’attenzione nei
confronti del legame tra l’uomo e la natura, tra terra e territorio, sono rintracciabili già in alcune
opere del passato di autori di spicco del cinema d’autore italiano. Come in «Caro Diario» (1993) di
Nanni Moretti, dove i confini tra la geografia fisica delle isole Eolie e il viaggio interiore del regista
si fanno labili e indefiniti. Il percorso intimo di Moretti alla scoperte di se stesso e delle sue paure si
riflette nella morfologia stessa dell’arcipelago: la sua solitudine è quella delle isole che formano
l’arcipelago, affini tra loro ma con qualcosa che le separa le une dalle altre segnando la loro
diversità. Come Moretti stesso d’altronde, la cui solitudine si accorda a quella di un gruppo ristretto
di persone, e che anche in una «società più decente di questa» è consapevole che si troverà
d’accordo solo con una «minoranza di persone».
In questa cornice naturale ancestrale, su questi lembi di terra in balia del mare, vediamo consumarsi
una lotta fiacca contro il tempo: una rivolta indistinta contro il passato ma soprattutto contro il
futuro. Una rivolta indecisa che si cristallizza in una situazione di stasi: dal quadro individuale si fa
un doppio salto di scala, passando al ritratto delle isole come riflesso della società italiana di fine
anni Novanta, anch’essa sospesa tra la fine del Novecento e l’incognita del nuovo millennio.
Il commento di Lucio è esemplificativo in questo senso: «Io voglio vivere qui senza radici. Le
nostre radici sono troppo pesanti. In tutti questi anni ho avuto vergogna dell’ltalia e della sua gente.
Ho avuto vergogna delle altre isole: così avide, grasse, ignoranti, narcisiste. Dove vive gente che
non si sente in colpa. Noi ci siamo ritirati qui per pensare agli altri. Gli italiani sono uno dei popoli
più condizionati e volgari del mondo. Questo Paese ha così sfrenatamente voglia di ridere. Che cosa
c’è da ridere?».
Ma tra gli autori che hanno trattato in maniera programmatica le immagini cinematografiche come
reperti archeologici, oggetti da cui partire per portare avanti un’indagine dell’umano, troviamo
sicuramente Pietro Marcello, in cui lo sguardo archeologico passa anche dalla tecnica: attraverso il
ricorso al cinema documentario e alle immagini d’archivio il regista ha composto un mosaico fatto
di frammenti d’Italia.
Uno degli esempi più alti di questa prassi filmica è «La bocca del lupo» (2009), un documentario
che si trasforma in favola urbana e racconto civile: il resoconto orale della storia di Enzo, un ex
detenuto che ritorna nella sua città e dalla sua amata Mary, si alterna e si intreccia con le immagini
della Genova del passato. Il passato di Enzo e quello della città si mescolano e si sovrappongono,

mostrando assonanze e discrepanze tra il ricordo dell’uomo e il mutare incessante della città
portuale. Una piccola storia d’amore, quella tra Enzo e Mary, che diventa un piccolo mito: la
narrazione intessuta da Marcello, attraverso un’opera di montaggio poetica nel suo cercare rime e
assonanze, costruisce una mitologia contemporanea di Genova, elevando al ruolo di eroi persone
umili, vessate dall’esistenza, abituate ad abitare nell’oscurità dei margini, invisibili. D’altronde non
è forse l’essenza stessa del cinema partire dall’oscurità fino ad arrivare alla luce?
Il momento della sfilata di carnevale ne «La chimera» è uno dei punti in cui memoria storica e
narrazione si incrociano, si mescolano fino a diventare un oggetto unico e particolare: un recupero e
riciclo di immagini che non attinge solo dalla storia del folclore, ma anche da quella del cinema
stesso. Non è difficile tracciare una linea che stabilisca un’affinità estetica e tematica tra la sfilata
chiassosa ed eccentrica dei tombaroli e le atmosfere circensi dei film di Fellini, così come è
possibile tentare un’analogia tra gli emarginati del cinema di Rohrwacher e i personaggi di film
come «La strada», persone che vivono ai margini della società ma capaci di grande creatività,
proprio come la Gelsomina interpretata da Giulietta Masina.
Una marginalità che viene strappata all’oscurità e viene messa al centro dello sguardo: sempre ne
«La chimera», lo sguardo degli Etruschi viene fatto coincidere con lo sguardo delle donne, unici
personaggi che comprendono e onorano la sacralità delle tombe etrusche e rispettano l’esistenza di
cose «non fatte per gli occhi degli uomini». Questa profonda comprensione del mondo antico
consente ai personaggi femminili del film di Rohrwacher di trasformare quell’eredità in qualcosa di
vivo, in grado di influire sul tempo presente: «Se fossero rimasti gli Etruschi, in Italia ci sarebbe
meno machismo» commenta Melody con lo sguardo in camera, tracciando una linea tra un passato
remoto e un futuro ipotetico: entrambi in gran parte sconosciuti, incerti e perennemente sospesi
nell’oblio.
Il legame tra femminile e mito emerge anche in un’opera italiana molto recente come «Parthenope»
di Paolo Sorrentino, dove anche il legame tra il lavoro del regista e quello dell’antropologo diventa
un tema esplicito e un nodo centrale per comprendere la narrazione stratificata e barocca del film.
Per costruire il suo personaggio principale, Sorrentino attinge direttamente al mito fondativo della
città di Napoli, secondo cui la città partenopea nasce dal corpo della sirena Parthenope. Anche la
Parthenope interpretata da Celeste Dalla Porta nasce dal mare, ma la sua vita si consumerà tutta
sulla terra: sospesa a metà tra divino e terreno, passato e futuro, sacro e profano, Parthenope,
caratterizzata da una bellezza fuori dal comune, rimane un mistero indecifrabile fino alla fine.
Esposta costantemente agli sguardi degli uomini intorno a lei e allo sguardo della camera ma allo
stesso tempo sfuggente, inafferrabile: Parthenope conosce bene gli inganni dello sguardo, e proprio

per questo vuole imparare a vedere davvero. E individua come strumento per imparare a vedere
proprio l’antropologia, disciplina che l’accompagnerà per tutta la vita.
In Parthenope il confine tra mistero e truffa è molto sottile, ed è impossibile capire quando il vero
sconfina nel falso e viceversa: in questo Parthenope incarna con preciso il mito, racconto fittizio che
nasce dalla necessità reale di spiegare l’incomprensibile, di afferrare l’inafferrabile e di mettere un
po’ d’ordine nel caos primigenio alla base della vita umana. E questo lo comprende bene anche
Rohrwacher, che parlando della struttura de «La chimera» sintetizza con precisione il confine tra
mito e storia: «C’è la sua storia, e c’è la storia di una comunità che riscopre cose del passato. Mi
sono ispirata alla nostra tradizione, dove le storie collettive erano spesso cantate dai trovatori.
Volevo che il pubblico fosse turbato dal fatto che la storia è vera, non perché sia “davvero una
storia vera”, no, ma perché ve la sto raccontando io. La verità di una storia sta nel suo racconto, in
questo caso attraverso il mito. Significa giocare con forme di narrazione collettiva… canzoni, che
trasformano una storia individuale in una storia epica, mitologica»
Allora mito e antropologia diventano più simili di quanto si creda, così come il cinema e
l’antropologia. E tutte queste direttrici collidono nell’elemento essenziale che tiene insieme tutto: lo
sguardo. Uno sguardo nuovo e antico al tempo stesso, che scava nel passato per saper raccontare il
futuro.

Sara Sicolo

Cambiare prospettiva
Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? (1897) è un dipinto realizzato da Paul Gauguin
durante il suo soggiorno sull’isola di Tahiti. Il pittore francese ritrae una serie di figure, in
prevalenza femminili, su un formato orizzontale dal gusto cinematografico. Si tratta di
un’allegoria dell’esistenza umana che, come in una carrellata laterale, si legge spostando lo
sguardo lungo il dipinto: l’infanzia è simboleggiata dal bambino disteso nell’angolo in basso a
destra, la gioventù dalle figure al centro della composizione, mentre la morte trova il suo
emblema nella donna anziana accovacciata sulla sinistra. Se Gauguin pensa il dipinto come
suo testamento artistico, oggi la sua opera ci dice qualcosa sulla maniera in cui l’arte può
reiterare la violenza di uno sguardo o contribuire all’alterizzazione dei soggetti rappresentati.
Gauguin si reca in Polinesia alla ricerca di un sistema di valori e di un linguaggio estetico
differenti da quelli europei. Se le opere realizzate durante la sua permanenza nel Pacifico sono
state a lungo analizzate nell’ottica di un rinnovamento dei canoni artistici europei, più
recentemente alcuni autori si sono interrogati sullo sguardo portato dal pittore sul mondo
extra-occidentale e sul suo rapporto con esso (nel villaggio di Paunaania, il pittore ebbe una
figlia dalla quattordicenne Pahura). Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? diventa così
un punto di partenza per una riflessione sull’appropriazione di un soggetto prima che di un
linguaggio visivo.
Alla fine del XIX secolo, Gauguin ritrae gli abitanti di Tahiti attraverso uno sguardo esotizzante,
rappresentandoli come alterità. Sebbene la scelta di spostare il suo punto di vista abbia
ispirato le generazioni artistiche successive, in tempi più recenti molti autori si sono chiesti
come sia possibile attuare un simile decentramento artistico senza alterizzare i soggetti di
un’opera. Questa riflessione, sempre più pregnante nelle arti visive, non ha risparmiato il
cinema, emergendo in particolare in una serie di opere incentrate sulla migrazione. Il cinema
italiano è ricco di esempi di registi che, nel raccontare l’esperienza migratoria, hanno cercato
di non reiterare la violenza e la criminalizzazione attuate da numerose narrazioni mediatiche,
passate e attuali.

Da dove veniamo?
Per distinguersi dallo sguardo spesso allarmista e discriminatorio portato sulla migrazione dai
mezzi di comunicazione di massa e da una parte del cinema mainstream, numerosi autori
hanno scelto di cambiare prospettiva. Tra questi, Matteo Garrone sceglie di mostrare nella sua
ultima pellicola una parte spesso non rappresentata del viaggio compiuto da numerose persone per raggiungere le sponde europee. Io capitano (2023) segue i giovani Seydou (Seydou
Sarr) e Moussa (Moustapha Fall) nel complicato percorso che li condurrà dal Senegal alle coste
italiane. In questo modo, il regista torna su un tema affrontato nel suo primo lungometraggio,
Terra di mezzo (1996), per adattarlo al realismo magico della sua filmografia più recente.
Garrone mira soprattutto a esortare lo spettatore a modificare la sua percezione
dell’esperienza migratoria. Obbligandolo a seguire i due protagonisti nell’infausto percorso
attraverso l’Africa nord-occidentale, il regista conduce il pubblico a fare i conti con la genesi di
una delle figure più incriminate nel paesaggio mediatico occidentale. Arrivato in Libia, Seydou
accetta infatti di condurre una nave carica di persone attraverso il Mediterraneo al fine di
pagarsi la traversata, un passaggio narrativo che trasforma l’eroe di Io capitano in uno scafista.
Ponendo lo spettatore di fronte al contesto e alle condizioni che determinano la traversata, Io
capitano si oppone alla criminalizzazione della migrazione messa in atto da un’ampia parte dei
media occidentali.
Quasi complementare a quello operato in Io capitano, un cambiamento di prospettiva sulla
migrazione è messo in atto da Alain Ughetto in Manodopera: vietato ai cani e agli italiani (2022).
Se Garrone sceglie di retrocedere nella geografia del fenomeno, il racconto in stop motion del
regista di origini italiane richiede allo spettatore di tornare indietro nel tempo e di mutare la
direzione del suo sguardo. Manodopera è un racconto sensibile della migrazione dei nonni di
Ughetto, costretti a lasciare il Piemonte rurale per trovare lavoro come operai in Svizzera agli
inizi del Novecento. Il regista sceglie di mostrare anche il momento in cui, durante la Prima
guerra mondiale, suo nonno è chiamato a combattere in Libia nella campagna coloniale
condotta dagli italiani in Africa settentrionale. Questo passaggio, oltre a mostrare
l’ambivalenza del regime fascista nei confronti di un’ampia fascia di cittadini, strappati alla
precarietà delle periferie solo per soddisfare le esigenze belliche dello stato, colloca la
migrazione italiana all’interno di un discorso postcoloniale. Manodopera ci ricorda infatti che
la storia italiana intreccia simultaneamente dei racconti di emigrazione e immigrazione: la
retorica dell’invasione si sgretola di fronte alla consapevolezza di essere stati invasori.

Chi siamo?
Dopo giorni di navigazione, la nave condotta sa Seydou è raggiunta dalla guardia costiera
italiana mentre tutti i passeggeri sono ancora in vita. Garrone sceglie di concludere Io capitano
con una nota di speranza. Si tratta, tuttavia, di un finale inverosimile, senza accenno al
percorso che attende i migranti in seguito allo sbarco e che si compone di procedure di
identificazione, di detenzione nei CPR, di lunghe battaglie per il riconoscimento di uno status
giuridico.
A una fase successiva della migrazione fa riferimento Fuocoammare (2016), film documentario
realizzato da Gianfranco Rosi e girato a Lampedusa. Seguendo contemporaneamente la vita di
Samuele, bambino senza età, e quella della comunità coinvolta nella gestione degli sbarchi di
migranti, Rosi ritrae l’isola come una realtà fatta di giochi all’aperto e di operazioni di soccorso, di compiti a casa e di momenti di preghiera, di occhi pigri e ustioni talvolta letali. Fuocoammare
interroga il presente della realtà migratoria, evitando di ridurre Lampedusa a un luogo di
tragedia ma mostrando l’isola come un luogo in cui la realtà degli sbarchi si intreccia
silenziosamente alla normalità.
Un risultato simile è ottenuto dai videoartisti di origini italiane, Maria Iorio e Raphaël Cuomo, in
Sudeuropa (2005-2007), un’opera che mette in luce la marginalità dei migranti a Lampedusa,
evidenziando al contempo l’importanza della loro presenza sull’isola al fine di soddisfare il
fabbisogno di manodopera a basso costo nel settore turistico. Cuomo e Iorio, riflettono inoltre
su come evitare di incorrere in un feticismo per la sofferenza, spesso alimentato dalle
rappresentazioni mediatiche del fenomeno migratorio. Una simile riflessione è portata avanti
da Rosi, che, nel suo racconto visualmente più esplicito, mantiene una rispettosa distanza tra
il pubblico e la sofferenza dei migranti, come nella scena in cui la fotografia di un ragazzo
gravemente ustionato durante la traversata viene mostrata sullo schermo del computer di un
medico Pietro Bartolo. Il dottore, figura che nel film costituisce un punto di incontro tra la
comunità dei lampedusani e quella dei migranti, è anche emblema della cura, che Rosi sembra
suggerire come possibile rimedio alla violenza della migrazione.

Dove andiamo?
Raccontare la fuga dalla violenza fuggendo all’aggressività della rappresentazione sembra
essere la sfida del cinema contemporaneo che si interessa alla migrazione. Questo sembra
essere in parte l’obiettivo di Disco Boy (2023), primo lungometraggio di Giacomo Abruzzese.
Non a caso, la carriera militare è dapprima scelta, e in seguito rigettata, dal protagonista
Aleksei (Franz Rogowski). Scappato dalla Bielorussa e giunto in Francia per arruolarsi nella
Legione Straniera al fine di ottenere una rapida naturalizzazione, il protagonista sarà inviato in
Nigeria per contrastare un gruppo di ribelli che si oppone allo sfruttamento delle risorse
naturali del territorio. In questa occasione, Aleksei uccide il rivoluzionario Jomo (Morr Ndiaye)
in uno scontro, un atto che porterà il protagonista a mettere in discussione il compromesso
inizialmente accettato. Aleksei rifiuterà infine il versamento di sofferenza e violenza richiestogli
dallo stato per la sua regolarizzazione. Lasciandosi alle spalle la caserma in una delle ultime
scene del film, il protagonista invita il pubblico a seguirlo nella ricerca di un’alternativa a un
percorso di violenza, che forse può essere suggerita dall’arte, simboleggiata dalla danza di
Udoka (Laëtitia Ky).
In Disco Boy, il rifiuto della violenza si concretizza sul piano narrativo quanto su quello visivo:
la lotta tra Aleksei e Jomo, che segna un punto di svolta nel percorso del protagonista, è filmata
con una telecamera termica, adoperata in campo artistico e cinematografico anche da Richard
Mosse e Jonathan Glazer. Limitando la leggibilità dell’immagine, Abruzzese sembra quindi
opporsi alla sua brutalità, rafforzando il messaggio del film e invitandoci a rivolgere lo sguardo
verso nuove soluzioni visive e politiche.


di Redazione
Condividi