Lo sguardo visionario di Bernardo Bertolucci in Io e te
Un lungo carrello si può fare anche stando fermi. Facendo muovere la mente e lo sguardo, scavando dentro, in profondità, o immaginando di fuggire via, altrove. E’ un’idea che Bernardo Bertolucci ha esplicitato in una recente intervista televisiva, ma che di sicuro deve aver tenuto presente durante le riprese di Io e te, il suo film più recente e, forse, per le condizioni in cui è nato, per la pausa lunga nove anni che lo ha prodotto, anche uno dei suoi film più estremi. Anche l’annuncio iniziale di voler girare il film in 3D tradiva un’idea che andava oltre la semplice attrazione di Bertolucci per le nuove tecnologie: c’era evidentemente il desiderio di misurarsi con la struttura claustrofobica del set trasformando una limitazione fisica (girare al chiuso di una cantina) in una chance, in un punto di forza. Venuto meno il 3D (un ripensamento dovuto a ragioni tecniche e commerciali) la sfida è diventata ancora più attraente, anzi addirittura l’anima segreta del film, il cui progetto estetico è tutto giocato sul dentro e il fuori, l’andare e il venire, l’espandere (l’infinito della fantasia e del desiderio) e il serrare (il nascondersi e sottrarsi, il dolore e la malattia).
A livello visivo grande il contributo delle luci e degli artifici cromatici della fotografia di Fabio Cianchetti e, naturalmente, il funambolismo visionario dello sguardo di Bertolucci che con dolly, panoramiche laterali e di sguincio, primissimi piani e tagli, inventa e moltiplica i punti di vista di uno spazio mentale che non smette di sognare l’infinito. Più in particolare, Io e te aggiunge un capitolo (particolarmente inquieto) al lungo romanzo cinematografico scritto fin qui da Bertolucci, con un delta di pessimismo in più che non sorprende. Se i giovani protagonisti di The Dreamers si chiudevano in casa alla scoperta del sesso e delle loro passioni, mentre fuori prendeva vita il Maggio francese, in Io e te si parte dalla stessa situazione ma capovolta e negata. Ci si chiude e ci si nasconde in casa per stare con se stessi e sottrarsi alla realtà (volgare, disattenta, infelice) ma fuori, nelle strade, non c’è nessuna rivoluzione in atto o in arrivo, anzi il ’68 c’è stato da tempo ed è passato invano.
Diversamente dal finale del romanzo di Ammanniti, il film di Bertolucci adombra un happy end aperto e allarmante, con uno scambio di promesse tra Lorenzo, il 14enne protagonista del film, e Olivia, la bella sorellastra che si atteggia a Dark lady: lui non fuggirà più e non dirà bugie (ma la scuola e la casa sono luoghi senza gioia, la madre è una donna infelice e lo psicoterapeuta un fantasma triste), lei proverà a smettere di drogarsi (ma il pusher l’aspetta dietro l’angolo). Insomma un happy end “senza end” (come ha scritto Roberto Silvestri da Cannes) ma soprattutto senza “happy”. Solo un cambio di passo di Lorenzo verso casa e il fermo immagine di un timido sorriso alla macchina da presa.
di Piero Spila