La Ronde e la censura italiana: una vicenda esemplare

Pubblichiamo la parte iniziale dell’articolo che sarà inserito nel prossimo numero (68) di CineCritica, versione cartacea. L’argomento centrale riguarda la censura a cui fu sottoposto, in Italia, all’epoca della sua realizzazione il capolavoro di Max Ophüls: La Ronde. Era il 1950.

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Analogamente al girotondo da cui prende il titolo e che ne rappresenta il leitmotiv, la pellicola che nel 1950 Max Ophüls trae da Reigen di Arthur Schnitzler passa nel nostro paese attraverso una ronde di divieti, tagli e rimaneggiamenti censori che dura ben otto anni. Un carosello che, nei passaggi di mano e nei rimpalli di responsabilità, nel succedersi dei volti e nomi (commissari, sottosegretari, ministri e governi), all’interno di una più generale immutabilità, rispecchia tanto il quadro politico dell’epoca, quanto uno spaccato di costume al cui centro non vi sono solo gli orientamenti e le idiosincrasie della censura cinematografica nell’Italia del dopoguerra, ma più in generale l’immagine di una società ancora profondamente legata al passato fascista da un lato, e gravata dal peso delle influenze del mondo cattolico dall’altro. Ne risulta una giostra tutta italiana che non ha per oggetto, come in Schnitzler e Ophüls, l’eros e la seduzione, ma il potere, il suo esercizio e i suoi meccanismi. Il che è poi, forse, lo stesso.

Stampato privatamente nel 1900 in soli duecento esemplari, e reso pubblico nel 1903, il dramma di Schnitzler vende quattromila copie in soli undici giorni, per raggiungere le trentacinquemila unità tre anni dopo, e lievitando verso cifre ancora più consistenti nonostante traversie editoriali e provvedimenti giudiziari: nel 1904 il volumetto è sequestrato a Lipsia, e le rappresentazioni teatrali postbelliche suscitano polemiche e disordini, tanto che nel 1921 la  compagnia che lo mette in scena è trascinata in tribunale con l’accusa di «aver sollevato pubblico scandalo con atti osceni», mentre Schnitzler, dipinto come un volgare pornografo, è bersaglio di virulenti attacchi dai toni antisemiti: «solo un ebreo – afferma la stampa nazionalista – avrebbe potuto mettere in scena qualcosa del genere».

Reigen arriva anche al cinema: la prima versione, datata 1920, è diretta da Richard Oswald e ha per interpreti Conrad Veidt e Asta Nielsen. A Schnitzler non piace affatto, trattandosi di un’operazione pretestuosa che con l’originale ha in comune il titolo e poco più: tanto che il drammaturgo ricorrerà a un’azione legale per tutelarsi contro lo sfruttamento commerciale della sua opera. Diverso il destino del film di Ophüls, considerato da Heinrich Schniztler la migliore riduzione dell’opera paterna, nonostante le sensibili interpolazioni del regista, prima delle quali l’introduzione della figura del presentatore-meneur de jeu interpretato da Anton Walbrook.

Girato in quarantatre giorni tra il gennaio e il marzo del 1950, La Ronde è accolto entusiasticamente alla Biennale di Venezia dello stesso anno, ottenendo due premi (miglior soggetto e dialoghi e miglior scenografia): nel 1951 sarà la volta dell’Oscar come miglior film straniero. Ma si fanno sentire anche le voci dissenzienti, le proteste della stampa cattolica, le accuse di oscenità. A Münster il film non viene proiettato dopo che l’episcopato ne ha stigmatizzato il contenuto immorale.

Quando La Ronde è presentato a Venezia, Giulio Andreotti è sottosegretario della presidenza del Consiglio con delega allo spettacolo da tre anni e tre mesi. Lo ha nominato – su esortazione del futuro pontefice Giovanni Battista Montini – Alcide De Gasperi il 4 giugno 1947, in uno dei primi atti del suo quarto governo appena insediato. Nei suoi sei anni di reggenza allo Spettacolo, Andreotti avrà un ruolo di primo piano nell’ideazione e applicazione delle leggi sul cinema, e la sua scrivania è tappa obbligata per tutte le pellicole prodotte o distribuite in Italia in quegli anni.

Se, come proclama l’art. 1 del decreto luogotenenziale n. 678 del 5 ottobre 1945, primo provvedimento legislativo sul cinema dopo la liberazione, emanato sotto il governo Parri, «l’esercizio dell’attività di produzione di film è libero», di fatto lo stesso d.l. 678, reintroduce dalla finestra l’azione della censura. Lo fa – pur abrogando tutte le altre norme in materia emanate tra il 1923 e il 1943, tra cui quelle sulla censura preventiva dei soggetti – con l’art. 11, che rimanda al regio decreto n. 3287 del 24 settembre 1923, e alle fattispecie previste nel regolamento annesso, in presenza delle quali il nulla osta di proiezione in pubblico non può essere rilasciato: una formulazione assai generica, che – come di fatto avverrà – può essere utilizzata per una casistica ampia e variegata. La cooptazione della normativa fascista dice molto sull’orientamento immobilista sul tema della censura all’interno una legge che in altri punti non esita a innovare. «L’Italia non si stanca mai di essere un paese arretrato» scriverà Vitaliano Brancati. «Fa qualunque sacrificio, perfino delle rivoluzioni, pur di rimanere vecchio».

Se ufficialmente essa è limitata all’atto finale della lavorazione, di fatto la censura inizia a monte, con la pratica della revisione delle sceneggiature, sottoposte a plurimi esami, ritocchi, chiose, “suggerimenti”, e grazie all’apparato normativo messo in piedi nell’immediato dopoguerra. Dopo le elezioni del 1948, che sanciscono l’affermazione della Democrazia Cristiana escludendo comunisti e socialisti dal potere, in un clima di radicalizzazione della lotta politica, Andreotti consegna al cinema italiano due leggi che danno linfa all’industria e tamponano l’invasione di pellicole statunitensi sul mercato. Alla «leggina» del 26 luglio 1949, n. 448, che istituisce il credito cinematografico presso la Banca Nazionale del Lavoro fa seguito la l. 958 del 29 dicembre 1949, che – oltre a inaugurare ulteriori incentivi all’attività e di risultato – consolida l’impalcatura del sistema censorio agendo sul piano economico. […]


di Roberto Curti
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