Il sospetto

Co-fondatore e ideologo del movimento “Dogma 95” (costituito da un gruppo di pasdaran cinematografici scandinavi decisi a reagire all’imperare della digitalizzazione dell’immagine per un ritorno al cinema puro e naturale privo di orpelli di natura tecnologica e rispettoso delle tre unità aristoteliche di spazio, luogo e tempo), il danese Michael Vinterberg ne aveva messo in pratica i dettami un po’ estremistici realizzando con Festen quella che resta forse la più riuscita applicazione di tali rigorose premesse teoriche.

Dopo il successo tributato in tutto il mondo a quel film, Vinterberg si lasciò tentare dalle sirene di Hollywood perdendosi un po’ per strada e inanellando una serie di inspiegabili e sconcertanti flop artistici che ne hanno fortemente appannato l’immagine di rigore estetico con cui si era imposto. Con Il sospetto il quarantatreene regista danese sembra invece tornato in grande forma ma soprattutto dimostra di aver fatto tesoro sia degli estremisti dogmatici di cui si era alimentato nei primi anni di carriera che della lezione impartitagli dal duro mondo dello showbusiness americano.

Con questo non si vuol certo dire che Il sospetto sia una forma di compromesso tra i due poli in antitesi. Tutt’altro. Si tratta cioè di un ritorno alle origini (sia per quanto concerne il tema trattato che per le modalità con cui esso viene affrontato e reso cinematograficamente) nel quale Vinterberg mostra di aver fatto tesoro degli scivoloni americani traendo il meglio possibile da quella non troppo fortunata gita artistica e adattando le esigenze dell’industria del cinema visto come merce da vendere al rigore etico ed estetico di chi crede invece nel cinema come tensione al racconto impegnato delle realtà anche più spiacevoli.

Presentato a Cannes a maggio e insignito del premio a Mads Mikkelsen (grande divo del cinema danese di esportazione qui a dir poco maiuscolo nei panni del protagonista) come miglior attore, Il sospetto ruota intorno a una cupa vicenda di pedofilia presunta alla quale segue la reazione scomposta e istintiva di un’intera comunità trascinata a giudicare un suo membro sulla semplice base del pregiudizio e delle apparenze.

Reduce da un divorzio molto difficile (l’ex moglie gli permetteva di vedere il figlio solo ogni due settimane), il quarantenne Lucas sta cercando di leccarsi le ferite interiori reinventandosi una vita con il figlio Marcus, il cane Fanny e l’affetto di una nuova compagna. La piccola comunità della campagna danese in cui vive lo stima come un suo valido e attivo membro (le bevute e le battute di caccia al cervo con qualche piccola bravata da maschi ne è l’adeguato contorno), mentre i bambini della scuola materna in cui lavora come maestro lo adorano.

Ad essergli molto attaccata è soprattutto Klara, figlia del suo migliore amico (che non le dedica sempre le dovute attenzioni), la quale un giorno gli esprime tutto il proprio affetto regalandogli un bacio e un cuoricino fatto a mano. Conscio di quanto questa doppia manifestazione di affetto possa essere interpretata nella maniera sbagliata, Lucas rifiuta il dono e invita la piccola a “girarlo” a un compagno. Offesa dal rifiuto (come farebbe ogni donna adulta che si rispetti), la bambina va dalla direttrice della scuola e si vendica denunciando moleste sessuali che di fatto non ha mai subito.

Da quel momento in poi per Lucas inizia una discesa all’inferno che nel giro di pochi giorni lo converte nel mostro cui tutti si sbrigano a dare la caccia. Siccome in ogni comunità che si rispetti ai bambini viene sempre data retta anche quando mentono soltanto per attirare l’attenzione o per infantili motivi di rivalsa (vedi il caso ugualmente spaventoso delle maestre di Rignano assolte dopo sette anni di incubi e di emarginazione sociale a seguito di accuse simili di abusi ai danni dei bambini), anche in questo piccolo paese nella civilissima Danimarca tutti ci mettono un attimo a fare due più due e a processare nella loro mente il povero maestro innocente.

A poco serve che la bambina, affidata alle cure di uno psicologo ma anche nella normale quotidianità della famiglia, insista nel ritrattare sostenendo di essersi inventata tutto: troppo facile pensare che agisca così per proteggere l’oggetto del suo affetto di un tempo da lei “punito” con la denuncia senza immaginare quali sarebbero state le conseguenze di quella che ai suoi occhi era una ritorsione normalissima nei giochi dei bambini. La comunità si erge in un attimo a tribunale etico sostituendosi e anticipando l’eventuale corso della giustizia ordinaria: Lucas viene emarginato come un paria bollato dall’infamia del più abominevole dei crimini, ovvero l’abuso dell’infanzia indifesa.

La sua discesa agli inferi è contrassegnata da una serie di stazioni che ne ingigantiscono la fisionomia da mostro in una simbolica via crucis di sofferenze fisiche e morali impostegli da quanti si convertono da amici e sodali in carnefici: cacciato dal supermercato a calci e pugni perché non gradito, Lucas viene fatto oggetto di lanci di pietre nel tentativo di colpirlo fisicamente mentre si trova in casa (dove può contare sull’affetto del figlio Marcus, il solo che creda alla sua versione dei fatti, mentre anche la nuova fidanzata sembra vacillare nelle proprie convinzioni, contagiata com’è dalla follia collettiva), gli ammazzano il cane per fargli capire che aria tiri e lo costringono ad abbandonare la chiesa quando si azzarda a farcisi vedere la notte di Natale.

Deciso a non lasciasi sopraffare da questa esplosione di odio collettivo, Lucas si impegna in una lotta improba da “solo contro tutti” nel tentativo disperato di recuperare la dignità perduta proprio nel momento in cui era appena riuscito a riemergere in superficie dopo il tracollo della separazione. E se anche nel finale le cose si aggiustano, come tutte le vittime di molti casi analoghi di cui la realtà di ogni paese trasuda, anche per Lucas il futuro porterà sempre con sé il ricordo di un’accusa che, pur rivelatasi infondata perché fondata solo sull’innocente menzogna di una bambina, sarà per sempre associata al suo nome.

Come già in Festen, anche ne Il sospetto l’intero impianto narrativo poggia sul tema della pedofilia. E se in quello splendido film del 1998 si trattava di un’accusa fondatissima (un padre accusato dal figlio durante una riunione di famiglia) e in questo ne viene invece dimostrata l’assoluta inconsistenza, è come se Vinterberg volesse tornare sul luogo del delitto ripartendo dal meglio del suo cinema per riprendere un discorso soltanto interrotto e mai davvero dimenticato. Se in Festen erano la famiglia borghese e la sua sacralità di istituto di conservatrice e guardiana dei migliori valori a essere messi alla berlina dimostrando cosa nasconda il balletto delle apparenze e il marciume che si annida sotto il tappeto della facciata, ne Il sospetto la famiglia viene sostituita dalla piccola comunità in cui Lucas agisce e viene messo alla gogna per l’accusa infamante che gli viene rivolta.

Ciò che a Vinterberg interessa davvero in questo magnifico ritratto di paese in interni che potrebbe tranquillamente essere stato scritto e diretto dal miglior Fritz Lang è studiare la reazione di una piccola comunità di fronte all’improvviso cambiamento che un evento imponderabile (l’accusa di pedofilia ai danni di un suo stimato membro) comporta, trasformando un gruppo compatto di amici e colleghi in un branco feroce di accusatori da Inquisizione, pronti a vedere streghe da mettere al rogo in ogni comportamento non allineato ai dettami imposti dalla morale comune.

Non è infatti un caso che il titolo originale sia The Hunt, ovvero La caccia, mantenuto nelle copie distribuite sul mercato internazionale e inspiegabilmente tradito dai titolisti italiani che, nella loro distorta creatività, hanno deciso di spostare il peso morale della pellicola dalle conseguenze materiali del pregiudizio che si esplicano nella caccia alla strega di turno al semplice pregiudizio stesso. Si sbaglierebbe quindi a pensare che Il sospetto sia incentrato sulla pedofilia, visto che il suo tema centrale sono gli effetti che un’accusa tanto infamante può causare e il potere che il pregiudizio ha di rovinare la vita a un innocente lasciando uno sfregio indelebile anche dopo che il castello di accuse viene smontato.

Algido e feroce nel suo mostrare le fasi di questa atroce conversione collettiva, Il sospetto forse non avrebbe potuto essere tanto efficace nella sua capacità di rendere quasi mitica una vicenda di ordinaria ingiustizia se non avesse potuto contare sull’interpretazione di Mads Mikkelsen (il cui volto è diventato popolarissimo in tutto il mondo grazie all’interpretazione del cattivo in Casino Royale, primo Bond del nuovo corso interpretato da Daniel Craig): pur nella sua bellezza statuaria di divo dagli occhi di ghiaccio, questo quarantacinquenne danese è straordinario nel regalare al pubblico l’immagine del solido uomo nordico che, vittima di un’ingiusta accusa che lo precipita nel baratro del disdoro agli occhi della comunità in cui era stato fino a quel momento un modello, non smette mai di credere nel proprio ruolo di adulto affettuoso e partecipe e decide di dare battaglia per riprendersi la dignità perduta senza mai reagire con violenza alla violenza subita. Ovvero ciò che farebbero invece gli eroi americani nei loro deliri superomistici da giustizieri della notte o i fin troppi vendicatori freddi e calcolatori partoriti di recente dal cinema orientale

Trama

In un piccolo paesino danese un rispettato maestro elementare deve lottare con tutte le proprie forze per riconquistare dignità e rispetto dopo essere stato ingiustamente accusato di aver commesso atti di pedofilia ai danni di una delle sue piccole allieve. 


di Redazione
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