La religione del cinema: il denaro

Paolo Caneppele, autore del recente Etica cinematografica e spirito del capitalismo. Il denaro nella réclame della Settima arte, Meltemi 2023, ci offre una sintesi del suo testo.

Paolo Caneppele

Far conoscere un nuovo prodotto e convincere le persone a usarlo non è un’impresa facile. I pubblicitari cercano, più una cosa è moderna e nuova, di renderla attraente, nascondendo i possibili pericoli insiti nel suo uso. Durante la Belle Epoque, periodo nel quale nacque e si diffuse l’intrattenimento cinematografico, il sistema piu in voga per rendere allettante e al contempo rassicurante un nuovo prodotto era quello di associarlo a figure mitologiche oppure ad altre collaudate immagini. Pescando nel bacino iconografico della tradizione i grafici ribadiscono la continuità tra passato e presente, dando alla tecnologia una patina di “tradizione”.

Analizzeremo come produttori, noleggiatori, distributori, proprietari di sale cinematografiche e altri personaggi attivi nell’industria cinematografica abbiano promosso e rappresentato grazie alla pubblicità le loro aziende, i loro prodotti e in definitiva tutta la nascente cinematografia. Dall’analisi emerge come i protagonisti di questa giovane industria siano stati permeati da una laica religione del denaro e come essi l’abbiano diffusa tramite marchi commerciali e inserzioni. Ci si muove quindi al confine tra film e pubblicità, tra arte e mercato. Come tutte le immagini pubblicitarie, anche quelle qui esaminate, non sono realistiche o oggettive, bensì manipolatorie, metaforiche e simboliche. Ma, come sostiene lo storico delle religioni Mircea Eliade, sono proprio i simboli che danno visibilità agli aspetti più profondi della realtà[i]. Per il teorico dei media Marshall McLuhan la pubblicità palesa gli istinti profondi di un’epoca: «Storici e archeologi scopriranno un giorno che i richiami pubblicitari della nostra epoca sono le riflessioni quotidiane più ricche e più fedeli che mai una società abbia fatto sull’intero campo delle sue attività»[ii].

La pubblicità è la fonte storica utilizzata per analizzare la forma di intrattenimento più importante del XX secolo. Cronologicamente l’analisi si pone tra la nascita del cinema, quindi tra la presentazione del kinetoscopio di Edison, nel 1893, e la prima proiezione a pagamento dei fratelli Lumière il 28 dicembre 1895, fino al termine della Prima guerra mondiale. Il periodo in esame, si situa in quella che gli economisti definiscono “prima globalizzazione finanziaria e commerciale”, così descritta da Thomas Piketty: «La “prima” globalizzazione coincide, storicamente, con l’avvento della lampadina elettrica e dei collegamenti transatlantici (il Titanic compare nel 1912), del cinema e della radio, dell’automobile e dei mercati finanziari internazionali. Ricordiamo che occorre attendere il primo decennio del XXI secolo per ritrovare nei paesi ricchi gli stessi livelli di capitalizzazione di mercato – in rapporto al prodotto interno lordo o al reddito nazionale – raggiunti a Parigi e a Londra negli anni tra il 1900 e il 1910»[iii]. Negli Stati Uniti d’America il periodo compreso tra il 1870 e il 1900 è denominato Gilded Age, età dell’oro. La Gilded Age e la prima globalizzazione sanciscono il dominio della borghesia e del capitalismo finanziario.

Dalla lettura delle inserzioni analizzate si potrebbe desumere che almeno fino al 1918 quanto prodotto dall’industria cinematografica abbia avuto un solo e unico scopo: il profitto. Pare che produttori, noleggiatori e gestori abbiano avuto un solo dio, il denaro, e che di questo siano stati devoti fedeli: “Profits must constitute the chief desideratum of the movie producers”[iv]. La loro strenua ricerca del profitto non fa che perpetuare il carattere sacrale del denaro. Lavoro e profitto permettono di realizzare miracoli, rigorosamente economici. Gli studi del sociologo e antropologo Marcel Mauss, di Walter Benjamin (che intitola programmaticamente un suo scritto “Capitalismo come religione”), dello scrittore ed ecologista Carl Amery, dei filosofi Giorgio Agamben e Thomas Macho confermano l’origine sacrale del denaro e dell’agire economico. Proprio l’austriaco Thomas Macho sostiene la necessità di soffermarsi su questo rapporto, perché: «troppo a lungo ci siamo occupati di teologia politica e troppo poco di teologia economica. Intendo dire che abbiamo fatto troppo poco caso a dove affondano le radici teologiche e religiose del nostro rapporto con il denaro, il debito, le tasse e così via»[v].

Tra i molteplici esempi dell’uso delle monete in ambito religioso uno dei più famosi è il cosiddetto “obolo di Caronte”, la moneta messa in bocca ai defunti per pagare il trasbordo effettuato da Caronte verso il regno dei morti, una credenza diffusa anche nell’antico Egitto. Altrettanto comune era la pratica di nascondere tesori nelle tombe. Questa prassi è celebrata nel film Il buono, il brutto, il cattivo (1966) di Sergio Leone. Dove mettere al sicuro una fortuna se non in un cimitero? In una tomba senza nome “…accanto a quella di Arch Stanton”. Dagli esempi descritti appare evidente come l’uso rituale delle monete sia antico e di comprovata tradizione. Una consuetudine fatta propria dalla nascente industria cinematografica che si palesa nelle inserzioni qui raccolte, le quali visualizzano la teologia della prosperità reclamizzata dalle riviste di cinema.

Con largo anticipo sui moderni movimenti pentecostali, una forma primitiva di questa teologia dilaga, a inizio Novecento, tra la gente del cinema. La religione del denaro ha trovato i propri predicatori nelle agenzie pubblicitarie che, da metà Ottocento in poi, si diffondono nei paesi occidentali. Esse celebrano i miracolosi poteri delle merci che pubblicizzano. È noto il legame esistente tra messaggio pubblicitario e la predica religiosa; per il linguista Leo Spitzer la reclame è una particolare forma di sermone[vi]. Se il capitalismo è una religione, esso si serve della teologia illustrata dai grafici e scritta dai copywriter. Questi ultimi sanno bene quali parole utilizzare per spacciare desideri, illusioni o merci. Molte delle “parole che vendono”[vii], quali miracolo, prodigio, magia, fortuna, successo, novità, soldi e ricchezza, punteggiano e vivacizzano le inserzioni qui commentate. Queste sollecitazioni, tali promesse non sono espresse solo a parole ma sono tradotte in immagini tanto dirette quanto spudorate. Queste illustrazioni, pur vecchie di un secolo, suscitano emozioni, emanano un fascino irresistibile. Esse ostentano ricchezza, mostrano senza decenza il denaro, sfoggiano lingotti. L’ostentazione è il fondamento di una strategia pubblicitaria planetaria basata sulla ripetizione. Questa è il più potente artificio retorico a disposizione di pubblicitari e propagandisti. La ripetizione è il grimaldello per accedere alle menti di elettori, acquirenti o fedeli. La reiterazione è l’anticamera del totalitarismo, del profitto e del paradiso.

Quando, nel 1905, il sociologo Max Weber pubblica il saggio “Etica protestante e spirito del capitalismo” il cinema ha dieci anni di vita. L’etica che guida gli imprenditori cinematografici pur essendo autenticamente capitalistica non è, a dispetto della tesi di Weber, legata unicamente al protestantesimo, ma è bensì sovra-confessionale. Nel 1900, a Vienna, su di un giornale si trova la conferma che lo spirito capitalistico del nascente cinema non fosse legato al pietismo protestante: «Cerco socio, cattolico con 1000 fiorini a disposizione per un Panorama e un cinematografo (immagini animate) con o senza partecipazione»[viii]. Per contattare l’inserzionista gli interessati possono rivolgersi all’ufficio annunci utilizzando il promettente codice di riconoscimento “Esistenza sicura”. Grazie al proprio ecumenismo religioso l’industria del cinema è e rimane capitalista, e i suoi imprenditori sono ancor oggi devoti fedeli di tale culto economico.

Fame. Annual Audit of Screen and Radio Personalities, 1945, New York, retro copertina

L’industrial religion, che permea il cinema, ha un unico idolo: il denaro. La tensione verso il guadagno è immanente e non stupisce che il cinema sia “il mezzo espressivo che ha il rapporto più stretto con il denaro”[ix]. Nel 1896, l’industriale tedesco Ludwig Stollwerck, attivo anche nel business delle immagini in movimento, afferma che il cinema permette di fare soldi senza rischi e quasi senza fatica[x]. Parole analoghe compaiono in un’inserzione pubblicitaria tedesca del medesimo anno che promette a coloro che acquistano un proiettore cinematografico di guadagnare molto in poco tempo. A tutte le latitudini, nei primi anni del XX secolo, l’industria cinematografica è nelle mani di carrieristi e speculatori che vedono nel nuovo divertimento un veloce sistema di ascesa sociale e facili guadagni. Nel 1907, in Italia esce un annuncio analogo che promette un futuro tanto sicuro quanto spensierato: «Cercasi socio capitalista disposto impiegare danaro in speculazioni cinematografiche. Massima serietà. Avvenire assicurato»[xi].

La portentosa capacità del cinema di produrre profitto si esprime perfino nei nomi dati agli apparecchi di proiezione. Nel 1898, tra le denominazioni date agli apparecchi cinematografici compare il benaugurale e promettente Getthemoneygraph. Anni dopo, segue l’altrettanto ottimista Getthemoneyscope. Il Mutoscope, è reclamizzato dal 1899 in poi, non come uno strumento per proiettare immagini in movimento ma come un money maker, una macchina per fare soldi. Ancora nel 1914, un’accattivante inserzione, pubblicata a intervalli regolari sulla stampa nordamericana sostiene: «Go into the movie business. Make money fast! Be your own boss! 30 to 50 $ per night clear. No experience needed»[xii]. Le immagini come anche i motti che accompagnano le inserzioni sono esagerate, l’understatement non è la qualità che contraddistingue i pubblicitari, convinti, come il filosofo Bernard Mandeville, che se “l’impudenza è un vizio, non segue che la modestia sia una virtù”[xiii].

Le inserzioni dei primordi si rivolgono a persone che vogliono tentare la fortuna con il nuovo intrattenimento. La pubblicità diffonde la favola dei soldi facili anche per chi è privo di esperienza ma, dal 1907 in poi, cambia il contenuto degli annunci. Questi si indirizzano principalmente a chi è già in affari rimarcando quali prerequisiti per arricchirsi la necessità di qualità imprenditoriali, partner affidabili ed eccellenti macchinari. I tempi eroici delle origini sono finiti. Il miraggio del successo facile si è appannato. La concorrenza non dorme e tutti vogliono avere successo, ma pur con tali distinguo, il cinema è sempre la perfetta macchina per arricchirsi. Un noleggiatore italiano è elogiato dalla stampa specializzata per il suo attivismo. Armando Maria Cristoffanini, questo il suo nome, è ben conosciuto dagli addetti ai lavori, e nel 1911, i giornalisti, ammaliati dal suo successo, lo descrivono così: «Con la sua aria di bravo ragazzo, il suo «Signoria»! è il rappresentante che fa affari più di tutti.

Vero è che spesso oltre la pelle vorrebbe anche l’anima del cliente, ma non importa, se ci riesce; lo scrupolo è cosa secondaria»[xiv]. Questo venditore senza scrupoli mira non solo alla pelle dei clienti ma anche alla loro anima, infatti “in nome del denaro sono implicitamente accettate deroghe al comune codice comportamentale”[xv]. Il denaro è infatti una tentazione superiore a quelle rappresentate dal sesso e dalla violenza[xvi]. La ricchezza è uno stimolo irresistibile per tradire regole, obblighi e patti. Complici di questa mancanza di remore i cronisti fanno coerentemente al Cristoffanini: “Auguri di quattrini a cappellate”[xvii].

Logo della ditta Carl Otto Schmidt-Film, Berlino. (Lichtbild- Bühne, 2 febbraio 1918, n. 5, p. 2).

Per diffondere il mito del successo economico del cinema i pubblicitari usano oltre ai simboli collegati al denaro anche simbologie legate al lavoro. Ad esempio, nel logo della berlinese Carl Otto Schmidt-Film compare un vigoroso fabbro intento a forgiare un film su di un’incudine[xviii]. Il fabbro impersona l’industria cinematografica, incarnandone la creatività. Nel 1918, sempre a Berlino, inizia a produrre la ditta Amboss-Film, che in italiano potremmo tradurre come “Incudine Film”, che per marchio di fabbrica ha ovviamente un’incudine. Il duro lavoro è alla base del successo, ma l’incudine è anche un utensile legato al denaro; infatti, su di esso si coniano le monete. Sul recto delle monete italiane da 50 lire coniate fino al 1995, campeggia la figura del dio Vulcano che lavora all’incudine. Per una casa di produzione cinematografica scegliere quale logo un’incudine equivale a ribadire, almeno indirettamente, il proprio valore economico.

Logo della Grand Films Populaires, Francia 1911, ispirato al dipinto La Semeuse di Oscar Roty. (Ciné-Journal, 29 aprile 1911, n. 140, p. 19).

Anche l’agricoltura contribuisce alla ricchezza delle nazioni come sostenuto dagli economisti fisiocratici. Il marchio scelto dalla società francese Grand Films Populaires è ispirato al dipinto “La Semeuse” di Oscar Roty. Roty disegna una ragazza con un abito svolazzante e i lunghi capelli al vento, che sparge a ventaglio i semi raccolti in una tasca. Questa novella Demetra spargendo le sementi getta le basi per la futura prosperità. Dal 1897, la figura della Semeuse decora pure la moneta d’argento da un franco, rimasta in circolazione fino al 1920. La scelta di usare come marchio di fabbrica il motivo iconografico che abbellisce una moneta instaura una relazione ora non riconoscibile, ma al tempo immediata, tra la Grand Films Populaires e il denaro. Varie inserzioni nordamericane che celebrano la ricchezza generata dal cinema si rifanno esplicitamente alla simbologia del raccolto. Il quotidiano lavoro del contadino è equiparato a quello dei produttori, noleggiatori o proprietari di sale. La costanza e l’abnegazione portano sempre frutti copiosi.

Il sole/dollaro fa maturare i frutti del lavoro. Réclame per una serie di comiche interpretate da Billy West, uno degli imitatori di Charlie Chaplin. (Motion Picture News, 13 ottobre 1917, vol. 16, n. 15, p. 2497).

Un altro simbolo di origine classica, connesso alla moltiplicazione della ricchezza che appare nella grafica commerciale, è la cornucopia. Il corno dell’abbondanza, compare, ad esempio, in una pubblicità germanica ove si vede come tra le monete sparse che escono dal corno si insinui la pellicola cinematografica vera promotrice della ricchezza.

Fortuna vi sorriderà! (Der Kinematograph, 10 gennaio 1912, n. 263, s.p.).

Un vecchio adagio afferma: “di soldi non si parla”[xix]. I grafici pubblicitari ingaggiati dalle compagnie cinematografiche dimenticano questa edificante regola enunciata da monsignor Giovanni Della Casa nel “Galateo overo de’ costumi”, e mettono al centro delle campagne pubblicitarie il denaro. Essi ne parlano e ne mostrano in abbondanza. Si è confrontati con un simbolismo da lotteria. I soldi sono raffigurati a mucchi, colmano sacchi e barili.

Farete soldi a barili se mettete in programmazione i film della Republic Film Company, nell’inserzione abbreviata in Rep. (Moving Picture News, 6 gennaio1912, vol. 5, n. 1, p. 16)

Il ruolo del denaro è gridato, il suo potere è tanto assoluto quanto evidente; la plutocrazia regna sovrana. Nelle inserzioni qui esaminate il denaro è protagonista in tutte le sue molteplici forme: cartamoneta, lingotti, monete, assegni. La polisemia del linguaggio pubblicitario si manifesta unicamente nei diversi tipi di monetazione, non nel messaggio che è invece unico e monotematico. Arduo giudicare, il valore estetico o artistico di tali immagini. In base a quali parametri potremmo valutare: il buon gusto, il realismo? Quest’ultimo non pare una categoria utile per giudicare gli annunci che sono realistici nella fattura ma sfacciatamente assurdi e irreali nei contenuti. L’immagine pubblicitaria, non importa se disegnata o fotografata, predilige mettere in scena in maniera inconsueta, oggetti straordinari, in luoghi al loro volta incredibili.

La soglia tra finzione e realtà è evanescente: «As money was becoming more fictional, fiction was becoming more mediated, more representational, more omniscient – in a word, more realistic»[xx]. Indubbiamente questi mucchi di soldi sono decorativi e ciò rinnova una tradizione antica, infatti, le monete primitive avevano oltre al valore economico anche una funzione estetica. Al contempo, il cinema riesce persino a tracciare vie e strade che portano direttamente ai soldi. Sono le strade lastricate d’oro che attirano migliaia di emigranti verso gli Stati Uniti, paese dalle infinite possibilità. Molti immigrati ricordano questa comune, grande illusione: «Venni in America credendo che le strade fossero lastricate d’oro, quando arrivai mi accorsi che non erano lastricate d’oro, che non erano neppure lastricate e che toccava a me lastricarle»[xxi].

Inserzione della Artcraft Pictures. Il motto recita: “Enter Artcraft, dollars follow!” (Artcraft Advance, 20 agosto 1917 vol. 1, n. 4, p. 8)

Gli emigranti fanno un ottimo lavoro e l’instancabile danaro, sempre in movimento, può muoversi ritmicamente su vie diritte in lunghe file ordinate, come i fotogrammi di un film. Al dinamismo del denaro corrisponde quello del cinema.

La ricchezza, il capitale sono mostrati senza pudore, in una sorta di esibizionismo valutario. Il termine latino copia significa abbondanza e per un’industria che proprio sulla quantità e moltiplicazione delle copie dei film, delle sale e degli spettatori ha costruito il proprio successo, questa omonimia è alquanto significativa.

Sembra che i grafici abbiano anticipato il gioco del Monopoli o siano stati al soldo di Zio Paperone. Come gli abitanti di Paperopoli, chi lavora nel mondo del cinema cerca solo una cosa, il denaro. Alcuni, come Paperino perché poveri, altri perché avidi come Paperone.

Il migliore sistema per fare soldi è tanto semplice quanto efficace: la proiezione. Il proiettore Cameragraph N. 6A riesce in questa alchimia. Un dollaro, la mano capace del proiezionista, uno schermo e una lente sono gli ingredienti necessari per questa magia. Sullo schermo del cinema appare ingrandito un enorme simbolo del dollaro. Soldi e immagini filmate coincidono: “Il denaro è il rovescio di tutte le immagini che il cinema mostra e monta al dritto”[xxii].

“How to make your dollar grow”. Pubblicità per il proiettore Cameragraph N. 6A costruito dalla ditta Power di New York. (Moving Picture World, 12 ottobre 1912, vol. 14, n. 2, p. 200).

Il denaro tramite la proiezione cinematografica si smaterializza diventando pura immagine, non importa quale sia il formato di proiezione. Il regista Jean-Luc Godard ha descritto i formati del cinema definendo quello con l’aspect ratio, cioè il rapporto tra l’altezza e la larghezza delle immagini,di 1,37 come ideale per l’essere umano, quello di 1,66 è invece, a suo dire, il formato “carta di credito” mentre quello di 1,85 è il “dollar scope”[xxiii].

L’oro si riconosce ad occhio grazie al suo luccichio, le monete si contano a vista e le banconote, come recitano le scritte su di esse stampate, “sono pagabili a vista al portatore”. La visione ha un ruolo centrale nel sistema monetario. Ecco, quindi, che la magica capacità della proiezione nel moltiplicare la ricchezza non è più una stravaganza grafica. In uno dei primi libri scritti sulla storia del cinema, pubblicato nel 1914, il cine-proiettore è paragonato alla lampada di Aladino che grazie alle immagini riflesse sullo schermo attiva un ininterrotto flusso di denaro. Fare soldi, non proiettare film, è l’autentica funzione di ogni proiettore: «And thereupon the Pacific coast rejoices greatly, for the ’wonderful lamp’ and its reflected visions upon the screen surcharge the arteries of commerce with its never-ending flow of dollars and more dollars»[xxiv].

Non sempre però il cineproiettore genera l’immagine del denaro, talvolta esso riesce a produrlo direttamente come accade in un’inserzione del 1909. La Pathé qui si reclamizza con lo slogan: “Pathé’s pictures produce profit. No risks”. Il disegno che lo accompagna mostra un proiezionista al lavoro ma dal rullo di pellicola che ha sistemato in macchina scaturiscono, come da una sorgente, monete che cadono in un sacco. Nella cabina di proiezione, il gallo della Pathé canta orgogliosamente annunciando l’inizio di uno spettacolo di successo. Il gallo è il marchio della Pathé, come anche il simbolo della Francia, ma esso richiama pure l’etica del lavoro convinta che il mattino abbia l’oro in bocca.

A compiere la magica trasformazione delle immagini in denaro non è solo il proiettore, talvolta è la striscia di celluloide, la pellicola a mutare in cartamoneta. Sulla pellicola è steso uno strato di sali d’argento fotosensibili che permettono all’immagine di formarsi. La pellicola ha quindi una propria innata ricchezza, contenendo un metallo nobile. Tra la pellicola e la moneta esiste da sempre una convertibilità naturale basata sull’argent. È chiaro allora perché la Kodak usi, per reclamizzare le proprie pellicole, lo slogan: “It’s pure silver that ‘gets the picture’”[xxv].

La convertibilità tra denaro e pellicola è tematizzata in una pubblicità per i cartoni animati Katzenjammer Kids. In essa i due bambini terribili, protagonisti delle omonime strisce a fumetti, azionano una sorta di rotativa dalla quale inizialmente esce pellicola che rapidamente si trasforma in banconote. Queste, volteggiando ordinatamente, cadono nella cassa del cinema dove sono programmate le loro avventure.

Réclame per i cartoni animati dei Katzenjammer Kids, figure molto amate in Nordamerica. In Italia sono noti come Bibì e Bibò, Capitan Cocoricò e la cuoca Tordella. (“Motion Picture News”, 7 ottobre 1916, vol. 14, n. 14, p. 2150).

Non solo le macchine possono produrre e dispensare ricchezze anche gli attori famosi, i divi ci riescono. Il filosofo Edgar Morin scrive a tal proposito: «Il divo è insomma prodotto di serie, oggetto di lusso e fonte di accrescimenti di capitale. È come l’oro, materia talmente preziosa da confondersi col concetto stesso di capitale, con la nozione stessa di lusso (gioiello), e da conferire un valore alla moneta fiduciaria. Le riserve auree dci sotterranei delle banche hanno per secoli garantito, come dicono gli economisti, ma più ancora misticamente, impregnato la valuta cartacea. Le riserve divistiche di Hollywood danno autenticità alla pellicola cinematografica. L’oro e il divo sono due potenze mitiche che vertiginosamente attraggono e assorbono tutte le ambizioni umane»[xxvi]. Il proiettore, moderna cornucopia, riproduce volti e corpi di attrici e attori che incantando il pubblico arricchiscono i produttori. Alcuni attori sono vere e proprie macchine da incasso. Uno di questi è il comico francese Max Linder, star del cinema europeo. Nel 1917 i suoi cortometraggi sono reclamizzati in Sudamerica con il motto: “Max spara i soldi nelle tasche dei proprietari di cinema più in fretta di quanto essi li possano contare”.

Inserzione che pubblicizza i film girati dal comico francese Max Linder. Il testo afferma che Max spara i soldi nelle tasche più velocemente di quanto sia possibile contarli. (Cine-Mundial, ottobre 1917, vol. 2, n. 10, p. 479).

L’economista Hans C. Binswanger sostiene che il denaro appartiene al regno dell’immaginazione[xxvii]; per uno dei padri dell’economia moderna John Maynard Keynes il sistema monetario non è altro che una specie di “illusione”[xxviii]. Per altri esso è un qualcosa di “immaginativo”[xxix] e Hollywood è, non a caso, la fabbrica dei sogni. La cinepresa permette la moltiplicazione del capitale. Si prende un dollaro, lo si proietta con la luce concentrata da un cineproiettore ed esso miracolosamente si ingrandisce. Questa trasfigurazione sembra frutto di un procedimento alchemico, che trova nello schermo il proprio catalizzatore.

La pubblicità diffonde e perpetua l’illusione del guadagno facile. La ferrea legge economica, che classifica il denaro come una merce difficile da ottenere, non svolge nella pubblicità alcun ruolo. Raramente sono raffigurate monete singole, esse invece formano un flusso continuo, inestinguibile; non a caso la parola inglese per denaro – currency – deriva dal latino currere, correre. I moderni conti bancari sono detti correnti e gli estratti conto riportano i movimenti dei nostri soldi. Ragionevolmente, le monete e le banconote scadute, che hanno perso il loro valore, sono dette “fuori corso”, avendo perso la loro capacità di muoversi. Anche le immagini animate esistono solo durante la proiezione quando la pellicola scorre davanti all’obiettivo.

Le inserzioni pubblicitarie, nella loro mutabilità, perpetuano e diffondono un unico messaggio: promettere il lusso, il successo e l’indipendenza. Questa reiterata promessa coincide con l’essenza del denaro. Anch’esso promette solo ed esclusivamente il proprio valore. Le monete, come le inserzioni pubblicitarie, in definitiva, millantano credito. La fiducia nel valore della moneta è alla base della sua diffusione e fortuna. Georg Simmel nella sua “Filosofia del denaro” scrive come ogni forma economica si basa sulla fede. Il denaro promette il valore attuale delle cose come i profitti futuri e altrettanto fanno i messaggi pubblicitari. Gli economisti e gli analisti si soffermano lungamente su una delle più ineffabili e fantastiche qualità della ricchezza, quella che permette di realizzare o più propriamente comperare, i propri sogni. Proprio questo fanno i miliardi di spettatori che, dal 28 dicembre 1895 in poi, acquistano un biglietto per affollare sale scure come la notte. Essi pagano per vedere e vivere i propri sogni: «Lo spettatore sogna nell’oscurità del teatro. Egli sogna i sogni che il denaro può comperare ma che egli non può permettersi o guadagnarsi nel mondo diurno»[xxx].Non ci si deve stupire se la fonte della ricchezza sia spesso localizzata nel cineproiettore. Questa è, infatti, una macchina che genera luce e nell’arte la luce è stata a lungo associata all’oro e all’argento[xxxi]. Inoltre, per raffigurare artisticamente l’oro i pittori antichi usano vero oro, come insegna il pittore Cennino Cennini ne “Il libro dell’arte”[xxxii]. Esiste quindi una corrispondenza ontologica tra oggetto e rappresentazione.

I pubblicitari sfruttano la confusione che nasce tra i soldi concreti e la loro rappresentazione. Essi cercano di rendere palpabile la presenza del denaro, pur essendo consapevoli dello scarto esistente tra il segno e la cosa rappresentata.  Nelle inserzioni qui esaminate i soldi disegnati non stanno, come spesso accade in altre immagini pubblicitarie, al posto di qualcos’altro. Qui il denaro, seppur disegnato, sta per sé stesso. Esso reclamizza sé stesso. In tali immagini il segno, il simbolo, coincidono con la cosa simboleggiata: “money signifies itself”[xxxiii]. In queste campagne pubblicitarie le immagini danno il cambio, “se si vuol intendere quest’espressione nel suo doppio senso, monetario e psicologico”[xxxiv], cioè stanno per, sostituiscono, rimpiazzano l’assente con il mostrato.  Queste inserzioni simulano, ma al contempo, stimolano chi le guarda, innescando il desiderio di possedere le ricchezze esibite. Esse risvegliano la concupiscentia oculorum, la cupidigia degli occhi stigmatizzata da Agostino d’Ippona[xxxv]. Nei botteghini dei cinema il denaro entra come una valanga che travolge il cassiere, mentre i proprietari delle sale si deliziano nel valutarne l’ammontare.  

La conta del denaro per coloro che hanno messo in cartellone i film della diva Henny Porten. l cartello che si legge al contrario (Ausverkauft) indica che i posti al cinema sono esauriti. Il motto recita “Un enorme record di incassi”. (Der Kinematograph, 25 aprile 1917, n. 539, s.p.).

In questo dorato mondo di illusioni dei perdenti non c’è traccia. Di quanti hanno perso la lotta con la concorrenza non si parla. Ma è evidente che più ricchi sono i vincitori, tanto più numerosi e poveri sono i perdenti. Delle persone che tentano senza successo la via del cinema, abbagliate dal miraggio di una vita agiata queste réclame non parlano. Non bisogna dimenticare che il capitalismo persegue solo la ricchezza e che a questo fine sacrifica ogni cosa, persona o ideale. Lo storico Fernand Braudel (1902-1985), certamente non un ardente rivoluzionario, scrive: «In realtà la situazione è tanto più grave in quanto un capitalismo spietato ha perseguito uno sfruttamento insano delle risorse, impoverendo gli spazi destinati a nutrire il mondo sino a comprometterne l’avvenire: e tutto questo in nome del profitto, di un profitto disumano»[xxxvi].

I pubblicitari fanno di tutto per nascondere il vero volto del capitalismo, mimetizzandolo dietro una cascata di monete d’oro. Forse per tali motivi, essi realizzano immagini sempre più incredibili. Alcuni illustratori sono persuasi che l’oro cada come le piume degli uccelli in volo. Anche il noleggiatore austriaco Handl è convinto che i soldi cadano dal cielo. Nella sua pubblicità, aerei e dirigibili, identificati con titoli di film di successo, volano pra il pubblico in coda alla cassa di un cinema. La squadriglia è guidata da un’aquila, il marchio della ditta.

Inserzione del noleggiatore austriaco Handl. La scritta alla base del disegno indica come i film della Handl riempiano la cassa delle sale cinematografiche. (Österreichischer Komet, 12 giugno 1915, n. 264, p. 6).

Dagli aerei i soldi piovono direttamente nel grembo della cassiera mentre accanto alla cassa si accatastano sacchi ricolmi di soldi. La composizione è in sé assurda, il profitto non cade dal cielo, ma viene dal pubblico pagante. Tuttavia, il messaggio è chiaro e inequivocabile: con i film della ditta Handl si fanno affari d’oro. L’immagine della pioggia d’oro è riproposta anche dai pubblicitari statunitensi. A chi proietta una particolare serie di film si promette una pioggia di monete.

La pioggia d’oro. (Moving Picture Weekly, 19 agosto 1916, vol. 3, n. 7, p. 52).

Gli aerei e i dirigibili sono i celestiali angeli tecnologici che annunciano la buona novella della moltiplicazione del denaro e così facendo ribadiscono la natura soprannaturale, ultraterrena e divina del profitto. Le inserzioni che celebrano il denaro sono spettacolari e grazie a questa qualità anticipano il capitalismo moderno, che non è più solo una fede ma soprattutto spettacolo. Guy Debord ha previsto questa trasformazione: “Lo spettacolo è il capitale a un tale grado di accumulazione da divenire immagine”[xxxvii]. Queste inserzioni non cantano la forza del denaro quale oggetto che può esaudire quasi tutti i desideri ma lo indicano quale fine ultimo dell’umano agire. Le monete della pubblicità non celebrano il potere o la gloria di un sovrano, esse sono autoreferenziali, festeggiano esse stesse. Il dollaro osanna unicamente sé stesso.

Nel quarto atto del dramma shakespeariano “Timone d’Atene”,scritto tra il 1602 e il 1605, l’autore inglese definisce l’oro come un dio visibile, in contrasto con il Dio supremo che per definizione e consuetudine è invisibile. Questa definizione non sfugge a Karl Marx che, in un suo scritto giovanile, la riprende rifacendosi esplicitamente al “Timone”di William Shakespeare[xxxviii]. Gli anonimi illustratori che hanno disegnato queste inserzioni sfruttano questa fondamentale qualità del denaro, oggetto dai tratti divini, mettendolo in scena, rendendolo protagonista dei loro messaggi. Il denaro, unica deità visibile, è la divinità perfetta per il mondo del cinema che basa la propria prosperità sulla visibilità di storie, persone, cose e luoghi. Funzionale al suo essere visibile è un’altra caratteristica singolare, eppur tipica di queste inserzioni, nelle quali il patrimonio non è occultato ma esibito. Nessuna X segna il luogo dove il tesoro è nascosto[xxxix]. Per incantare, il guadagno deve essere mostrato. Così, in pubblicità, il possesso vira in spettacolo.

Le enormi quantità di monete che scorrono, volano, cadono, sfilano, marciano e compaiono in queste inserzioni hanno in definitiva un che di esagerato, potremmo dire quasi qualcosa di inflazionistico. I mucchi di denaro dissolvono il valore del denaro, ma questa legge finanziaria sfugge ai pubblicitari. L’inflazione, distruggendo il valore del denaro, causa l’aumento dei prezzi e del valore nominale delle banconote. Le cataste di soldi fanno svanire ogni ricchezza e ogni relazione commerciale. Non a caso l’iperinflazione è iconograficamente illustrata proprio con le stesse montagne di banconote presenti nelle nostre inserzioni. Se se ne vuole avere una conferma basta guardare il cortometraggio di Hans Richter intitolato Inflation (1928). Il luccichio delle monete, le mani che contano le banconote, la pioggia di monete, l’unità che muta in decina, centinaia, migliaia fino al miliardo sono le protagoniste di questo film come di tutte le inserzioni qui presentate. Le réclame cinematografiche e le immagini che rappresentano l’inflazione utilizzano gli stessi motivi iconografici con sola differenza che qui esse millantano ricchezza mentre là testimoniano povertà. Il denaro è l’effetto speciale che il cinema delle origini ha usato per presentarsi e celebrarsi.


[i] M. Eliade, Images et symboles. Essais sur les symbolisme magico-religieux, Gallimard, Paris 1952, p. 13.

[ii] M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Garzanti, Milano 1986, p. 256.

[iii] T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Firenze-Milano 2014, p. 54.

[iv] R. R. Terlin, You and I and the Movies, Womans Press, New York 1936, p. 47.

[v] P. Sloterdijk, T. Macho, Il dio visibile. Le radici religiose del nostro rapporto con il denaro, Dehoniane, Bologna 2017, p. 63.

[vi] L. Spitzer, op. cit., p. 71.

[vii] G. Gazzera, L’elaborazione del testo nell’annuncio pubblicitario, in A. Chiantera (a cura di), Una lingua in vendita. L’italiano della pubblicità, La nuova Italia, Roma 1989, p. 100.

[viii] Neue Freie Presse, n. 13021, 22 novembre 1900, p. 28.

[ix] M. Cella, Lo spettacolo del denaro. Alcune riflessioni sul rapporto fra cinema e denaro, in “Inoltre”, vol. 6, 2003, pp. 55-58.

[x] M. Loiperdinger, Film & Schokolade. Stollwercks Geschäfte mit lebenden Bildern, Stroemfeld, Frankfurt am Main-Basel 1999, p. 123.

[xi] Cinema-Chantant, n. 1, 20 ottobre 1907, p. 5 citato in A. Bernardini, Lessico semiserio del cinema italiano delle origini, in A. Costa (a cura di), La meccanica del visibile. Il cinema delle origini in Europa, La casa Usher, Firenze 1983, pp. 149-151, qui pp. 149-150.

[xii] “Moving Picture World”, vol. 21, n. 3, 18 agosto 1914, p. 494.

[xiii] B. Mandeville, La favola delle api, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 46.

[xiv] “La Cine-Fono”, n. 168, 16 settembre 1911, p. 9.

[xv] C. Widmann, Il mito del denaro, Magi, Roma 2009, p. 157.

[xvi] P. Hubbard, R. Kitchin, B. Bartley, D. Fuller, Thinking Geographically. Space, Theory and Contemporary Human Geography, Continuum, London-New York 2002, p. 153.

[xvii] “La Cine-Fono”, n. 191, 9 marzo 1912, p. 11.

[xviii] “Lichtbild-Bühne”, n. 5, 2 febbraio 1918, p. 2.

[xix] A. Lehmann, Geld, Einkommen und Preise. Überlegungen zum Erzählen über ein heikles Thema, in A. Hartmann, P. Höher, C. Cantauw, U. Meiners, S. Meyer (a cura di), Die Macht der Dinge. Symbolische Kommunikation und kulturelles Handeln. Festschrift für Ruth-E. Mohrmann, Waxmann, Münster-New York- Monaco-Berlin 2011, pp. 195-207.

[xx] J. Vernon, Money and Fiction: Literary Realism in the Nineteenth and Early Twentieth Centuries, Cornell University Press, Ithaca-London 1984, p. 18.

[xxi] R. Saviano, M. Borrelli, Sanghenapule. Vita straordinaria di San Gennaro, Piccolo Teatro di Milano, 2017, leggibile qui.

[xxii] G. Deleuze, op. cit., p. 92.

[xxiii] J.-L. Godard, Formats, in “Les cahiers du cinéma”, n. 951, giugno 2004, p. 78.

[xxiv] R. Grau, op. cit., pp. 284-285.

[xxv] “Home Movies”, vol. 12, n. 1, gennaio 1945, p. 23.

[xxvi]  E. Morin, I divi, Mondadori, Milano 1963, p. 138.

[xxvii] H. C. Binswanger, Geld und Magie. Deutung und Kritik der modernen Wirtschaft anhand von Goethes Faust, Weitbrecht, Stuttgart, 1985, p. 167.

[xxviii] A. Leyshon, N. Thrift, Money/Space. Geographies of Monetary Transformation, Routledge, London-New York 1997, p. 32.

[xxix] J. Hillman, A Contribution to Soul and Money, in R. A. Lockhart, J. Hillman, A. Vasavada, J. Weir Perry, J. Covitz, A. Guggenbuhl-Craig, Soul and Money, Spring Publications, Dallas 1982, p. 39.

[xxx] M. McLuhan, La sposa meccanica, cit., p. 193.

[xxxi] M.-M. Martinet, L’or et l’argent dans l’art au XVIIe et au XVIIIe siècles en Angleterre: couleurs, lumières, valeurs, in Argent et valeurs dans le monde anglo-américain aux XVIIe et XVIIIe siècles. Actes du Colloque – Société d’études angloaméricaines des 17e et 18e siècles, 1980, p. 61.

[xxxii] C. Cennini, Il libro dell’arte o Trattato della pittura, Le Monnier, Firenze 1859 (1420), a esempio a p. 95.

[xxxiii] S. Smelt, Money’s Place in Society, in “The British Journal of Sociology”, vol. 31, n. 2, giugno 1980, p. 205.

[xxxiv] R. Barthes, L’impero dei segni, Einaudi, Torino 1984, p. 54.

[xxxv] Agostino di Ippona, Confessioni, 10.34.51 – 10.35-56.

[xxxvi] F. Braudel, Geostoria: la società, lo spazio, il tempo, in F. Braudel, Storia, misura del mondo, Il Mulino, Bologna 1998, p. 91.

[xxxvii] G. Debord, La società dello spettacolo, Massari editore, Bolsena 2002, p. 54, § 34.

[xxxviii] K. Marx, [Denaro], in Manoscritti economico-filosofici del 1844, Orthotes Editrice, Napoli-Salerno 2018, pp. 233-239.

[xxxix] Si pensi a Indiana Jones and the Last Crusade (Steven Spielberg, 1989): “We do not follow maps to buried treasure, and “X” never, ever marks the spot”.


di Paolo Caneppele
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