45 anni di Animal House: le storie di un cult senza tempo

Francesco Parrino ripercorre l'eredità di Animal House, il cult senza tempo diretto da John Landis.

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Più di tutto, più della goliardia come unico rimedio a una vita da matricole, più delle sequenze entrate di diritto nella storia del cinema – dal Toga Party al ritmo di Shout degli Isley Brothers, alla climatica parata finale, sino a quello sguardo in camera di Bluto/Belushi davanti al dormitorio femminile che è implicita ma intenzionale (ed esilarante) rottura di quarta parete – sono le sue storie a cementificare il valore di Animal House di John Landis nei suoi primi quarantacinque anni di vita. Come quella di Tom Hulce che di lì a poco si sarebbe guadagnato la sua fetta di immortalità artistica con Amadeus, Karen Allen che nel decennio successivo prenderà parte a quattro cult di razza purissima (Cruising, Indiana Jones e i Predatori dell’Arca Perduta, Starman, S.O.S Fantasmi) e quei Tim Matheson, Bruce McGill e Peter Riegert futuri veterani del piccolo e grande schermo.

C’è poi Kevin Bacon al suo primo ruolo accreditato, Donald Sutherland la cui presenza sembra quasi sancire il passaggio di testimone tematico con M.A.S.H., e quel John Belushi mattatore impareggiabile, prossimo alla consacrazione tra 1941 – Allarme a Hollywood e The Blues Brothers. E sarebbe potuto essere ancora più grande Animal House, specie considerando che i ruoli principali erano stati pensati al fine di renderlo un’autentica parata di comici del Saturday Night Live comprendente Chevy Chase, Bill Murray, Brian Doyle-Murray e Dan Aykroyd. O almeno queste erano le intenzioni del produttore Ivan Reitman che nel 1975, dopo aver prodotto Il demone sotto la pelle, opera prima di David Cronenberg, e lo show comico The National Lampoon Show con alcuni membri del SNL, propose l’idea a Matty Simmons, editore-capo della rivista umoristica National Lampoon.

Una suggestione stoppata sul nascere da Landis che proprio non riusciva a vedere il progetto come un film SNL, dal produttore dello show Lorne Michaels che minacciò di licenziare Aykroyd se avesse accettato di prendervi parte, e dallo stesso Chase che vi preferì Gioco sleale. L’unico che ci credette fino in fondo fu Belushi. Pagato appena 35.000 dollari dalla Universal Pictures che lo sottovalutò talmente da vederlo come esilarante comprimario, con i suoi tempi comici perfetti rubò la scena a tutti, consegnando ai posteri un Animal House intramontabile gemma filmica tutta da ridere, punto di svolta di almeno due generazioni di spettatori e dei suoi fortunati interpreti.


di Francesco Parrino
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