Incontro con Jonathan Demme – XVI Milano Film Festival

Milano ringrazia per la retrospettiva dedicata a Jonathan Demme, fiore all’occhiello del fitto programma di Milano Film Festival, la manifestazione che porta nella città meneghina i talenti del cinema internazionale, rivolta ad un pubblico under 40. Il festival – che ha chiuso battenti da qualche giorno – ha proposto nella sezione curata da Alice Arecco oltre sessanta titoli firmati dal premio Oscar Jonathan Demme che ha offerto ai giovani cinefili anche una lezione di cinema che ha registrato il tutto esaurito. Sold out anche per la proiezione dei suoi film, tra titoli memorabili e numerosi documentari poco noti, a cui si è aggiunto in anteprima europea l’ultimo titolo della trilogia dedicata alla figura del cantautore Neil Young, “Neil Young Journeys”.
Al regista Jonathan Demme abbiamo chiesto di parlare dei suoi progetti passati, presenti e futuri.
La XVI edizione del Milano Film Festival è dedicata a lei, con un’importante retrospettiva sui suoi lavori. Come ci si sente?
Sicuramente sono onorato, ma anche stupito e per questo ringrazio dal grande lavoro di ricerca che è stato fatto. Da un lato ci si sente come sopraffatti, ma dall’altro la generosità e la dedizione con cui è stata costruita questa sezione a me dedicata, mi ha veramente colpito. La curatrice è andata a scovare, con successo, dei film che io stesso ho cercato di nascondere per decenni, fino al bellissimo catalogo che illustra il tutto e che mi dedica degli spazi importanti.
Dopo i primi due lavori dedicati a Neil Young “Philadelphia” e “Neil Young: Heart of Gold”, ecco l’ultimo tassello di una trilogia “Neil Young Journeys”.
Innanzi tutto c’è da dire che sebbene sul catalogo il film sia indicato come Neil Young Life in realtà si chiami Neil Young Journeys, su richiesta dello stesso Neil che ha pensato che Life fosse, troppo autoreferenziale, troppo emozionante. Così ho cambiato con “journeys”. Sono legato a Neil Young da un rapporto di complicità e vera amicizia, ma anche da un sodalizio artistico come collaboratore. Tutto di lui mi entusiasma. E in generale seguo sempre il mio entusiasmo e mi piace essere entusiasta del materiale che tratto: potrei filmare Neil Young in casa sua per otto ore di fila e lo troverei interessante, e potrei trattare il suo personaggio sempre in maniera differente. La sua musica per me è straordinaria. C’è una continuità dell’anima. E’ tornato ora a lavorare sul palco, da solo, come 40 anni fa, e io ero li. “Philadelphia” e “Heart of Gold” sono due lavori molti diversi che non vedo come legati a quest’ultimo. “Neil Young Journeys” è un omaggio all’artista, alla sua musica e al suo modo di essere nel crearla. Il documentario è stato girato quasi interamente al Massey Hall dove Neil Young ritorna appunto dopo 40 anni. Tornare a suonare in questo posto è stato per Young un momento molto importante e significativo. Negli anni ’70 in questo luogo ha suonato con tantissime band, tra cui Crazy Horse oppure Booker T. Al termine del suo ultimo tour durato un anno e mezzo, Neil Young è tornato da solo al Massey Hall, e il film vuole evidenziare il coraggio che l’artista ha avuto a suonare come fosse un one-man band, accompagnandosi con strumenti che gli permettessero di fare il lavoro che dovrebbero fare tre o quattro musicisti allo stesso tempo. Ho piazzato sei videocamere, una sempre puntata sulla chitarra, per non perdere un istante di quello che fa, anche in termini di “feeling”. Neil è la personificazione delle sue canzoni. Esploro il suo volto perchè cambia. Quando esegue “Down by the River” lui diventa quel personaggio. Per l’esecuzione di “Ohio” ho chiesto ai genitori delle vittime una liberatoria, volevo far vedere i volti dei ragazzi uccisi e i luoghi con il volto di Neil. Diventa chiaro quanto sia importante quella canzone per lui. Ma il film non fa vedere solo il musicista: il tentativo è stato quello di svelare anche Young come persona, la sua vita, i ricordi d’infanzia, la terra che lo ha accolto, ma anche le sue difficoltà dopo la scomparsa di Larry Johnson, il suo ‘fratello di sangue’ sul grande schermo, e Ben Keith, l’amico fraterno e virtuoso della band.
Come si è sentito dopo l’enorme successo de “Il silenzio degli innocenti” ? Avrebbe potuto diventare uno dei più grandi registi di blockbuster…
Non ho mai avuto professionalmente una strategia precisa, ho vissuto e lavorato ‘nel presente’ mai proiettandomi in un futuro di lavoro. Solitamente penso ad un progetto per volta e dopo il grande inaspettato successo, de “Il silenzio degli innocenti” ho goduto di una situazione di relativo ‘potere’, potevo scegliere i progetti di cui occuparmi e ho ricevuto diverse proposte di lavoro. E’ stato quello il momento in cui decisi di spendere il ‘credito’ che avevo acquisito per sviluppare i temi che mi stavano a cuore come l’Aids e quello dell’omofobia. Si trattava di soggetti diversi ma per via del positivo effetto de “Il silenzio degli innocenti” non ebbi difficoltà a trovare i finanziamenti e cosi realizzai “Philadelphia”, anch’esso poi un grande successo. Nello stesso modo, poi, utilizzando credibilità e finanziamenti recuperati senza difficoltà, sono riuscito a trattare temi importanti come in “Beloved, la segregazione razziale”. La mia attività professionale comunque ha alternato film da cassetta da una parte e progetti documentari che mi stavano più a cuore, dall’altra. Quando hai un grosso budget alle spalle puoi realizzare molto a livello creativo, ma chi investe sul tuo lavoro si aspetta anche un ritorno economico, quindi anche certe scelte risultano limitate. Questo fino a “The Manchurian candidate”, altro film a grosso budget realizzato nel 2005, quando, nonostante il successo ottenuto, ho avvertito l’esigenza di confrontarmi con situazioni più piccole e trattare temi ‘più privati’, dove potessi essere più libero. E’ nato così “Rachel sta per sposarsi” che è un film con un budget minore, ma che mi ha dato molta soddisfazione per aver potuto raccontare quella storia.
Quali i suoi prossimi progetti?
Un film d’animazione sul disastro di New Orleans e un lavoro tratto dall’ultimo romanzo dello scrittore horror Stephen King,
non ancora pubblicato, di cui è prevista l’uscita in libreria a novembre. S’intitolerà ‘11-22-63’ e racconta di un professore d’inglese che viaggia nel tempo, e torna nel 1959, con l’obiettivo di prevenire l’assassinio del presidente John Fitzgerald Kennedy.
di Patrizia Rappazzo