Carnage

Tutte le ipocrisie del mondo occidentale, tutte le convenzioni e le frustrazioni che gli appartengono, a partire da quelle generate dai vincoli coniugali, vengono messe a nudo in questa prova cinematografica ispirata all’opera teatrale ‘God of Carnage’ dell’autrice francese Yasmina Reza (qui presente nel ruolo di co-sceneggiatrice). Una “rissa” tra bambini è all’origine dell’incontro tra due coppie di genitori, diametralmente opposte tra loro sia socialmente che culturalmente, che si spendono nel tentativo di risolvere la questione in maniera educata e civile. Penelope, idealista frustrata, è sposata con Michael, rozzo e genuino lavoratore della middle class; Alan, invece, cinico e scostante avvocato di successo, è il marito di Nancy, madre impettita ma terrorizzata dall’infelicità e dal fallimento.

Roman Polanski si diverte a costringere i quattro protagonisti all’esilio volontario in una quiete domestica solo apparentemente civile, che col passare dei minuti rivela sempre più la sua natura di gabbia. Tra le sue sbarre immaginarie prenderanno vita situazioni paradossali simili a crisi claustrofobiche, in cui l’unico imperativo è “massacrare” la vita dell’altro per trovare meno miserabile la propria.

In questo gioco nevrotico i personaggi del film si trovano a stringere alleanze insospettabili (non importa che l’alleato sia l’estraneo piuttosto che il partner) quanto precarie: ognuno ricoprirà a corrente alternata il ruolo di carnefice o di vittima, incapace di nascondere i propri tic e impegnatissimo a cercare di “uscire dall’angolo” per mettere qualcun altro al suo posto. In questa occasione la poetica dell’accerchiamento, da sempre cara al regista, viene sviluppata con brillanti toni di commedia che in alcune gag ricordano vagamente il Woody Allen delle ultime due decadi. Tuttavia la New York di Carnage è presente solo come richiamo esterno, in quanto metropoli simbolo delle nevrosi occidentali, e ripresa in campo lungo solo due volte: nella scena iniziale e poi in quella conclusiva, quasi a sottolineare la lontananza tra il casus belli all’origine dell’incontro tra i quattro protagonisti e il cuore del film, in cui la Grande Mela fa capolino dalle finestre dell’appartamento solo in qualità di cielo plumbeo (e non si tratta nemmeno della vera New York: le riprese sono state effettuate a Parigi per via delle vicissitudini legali di Polanski, sul cui capo, negli Stati Uniti, pende ancora un mandato di cattura).
“Un cielo così cupo non può schiarire senza una tempesta” diceva William Shakespeare, e Polanski gli dà ragione, scatenando un turbinio di conati di vomito, litri di bile in eccesso, fiumi di alcol e centinaia di snervanti bit di tecnologie cellulari in grado di annullare chilometri di distanza dal resto del mondo eppure anche di porre la stessa lontananza emotiva tra persone che siedono e vivono l’una di fianco all’altra.

Il regista fa grande uso del campo e controcampo come a tracciare lo spettro dell’interazione emotiva tra i protagonisti, simile in questo caso alle più tortuose montagne russe. Quando il whiskey infine annulla le inibizioni dei quattro contendenti la macchina da presa barcolla persino, diventando tremolante come la prospettiva di chi ormai il dialogo lo subisce, naufrago nel suo stesso mare (d’alcol).

D’altro canto già dalle prime battute del film l’educazione dei protagonisti è contrita, forzata, come a testimoniare quanto precaria fosse la quiete già dagli scambi iniziali. Di fatto un litigio tra bambini si trasforma in uno scontro di civiltà nella civiltà: i genitori, nel mettere sotto processo il figlio degli altri, non sembrano tanto voler tutelare la propria prole quanto attaccare preventivamente i propri contendenti, per non soccombere alla carneficina del titolo, quella perpetrata dal giudizio della società.
Efficace nel complesso, anche se non sempre calzante, la prova degli attori: un poker di talenti tra cui premi Oscar del calibro di Jodie Foster e Cristoph Waltz, che di tanto in tanto si fanno prendere la mano dai dialoghi isterici, risultando macchiettistici nella caratterizzazione dei loro personaggi. Più convincente Kate Winslet nei panni dell’elemento più fragile tra i quattro, mentre John C. Reilly, l’unico del gruppo a non avere ancora vinto l’Academy Award, risulta in assoluto il meno gigione, contribuendo a sdrammatizzare le crisi degli altri quanto le proprie con la sua naturalezza e soprattutto con dei tempi comici impeccabili.


TRAMA

Due undicenni litigano in un parco e uno dei due colpisce l’altro sui denti con un bastone. I genitori dell’assalitore, Alan e Nancy Cowan, si trovano a casa dei genitori del bimbo aggredito, i coniugi Michael e Penelope Longstreet, per risolvere la questione in maniera civile e cercare di favorire la riconciliazione tra i propri pargoli. Qualsiasi tentativo di mediazione naufragherà inesorabilmente di fronte alle profonde differenze (e diffidenze) tra i quattro adulti, i quali si ritroveranno incastrati in una discussione interminabile ed esasperante che metterà a nudo tutte le loro nevrosi.



di Redazione
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