Un requiem dall’inferno, ovvero De Sade nel cinema italiano
Una riflessione trasversale a cura di Antonio La Torre Giordano.
Gli anfratti del cinema italiano sono stati sempre intrisi di un erotismo che oltraggiava le censure, i governi e le tendenze. Persone, cronaca e persino i fatti storici sono stati spesso condizionati dall’eros. Il costume nazionale esalta la famiglia da un lato, ma strizza l’occhio all’avventura extraconiugale, all’evasione trasgressiva. Questo elemento binario è rintracciabilenel cinema d’autore come nei generi nostrani, in modo diverso e talvolta occultato o mal celato; è sempre arduo scorgere un cinema made in Italy agamico o asessuato.
Il primo nudo nel cinema italiano immortalava Clara Calamai ne La cena delle beffe (1949)di Alessandro Blasetti; benché nella scena madre di Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini, vada rilevato in chiave necrofila il reggicalze di Anna Magnani, ormai cadavere. Le censure fasciste e antifasciste sorvolarono, e le implosioni scandalistiche rimasero tutto sommato privi di clamori.
Nel Dopoguerra, la combinazione degli stilemi erotici nel nostro cinema non mutò, e a mallevare i paciosi turbamenti nelle sale cinematografiche del tempo ci pensarono attrici come Silvana Mangano, Marisa Allasio, Gina Lollobrigida, Gianna Maria Canale e, ovviamente, Sophia Loren.
Con gli anni, le vesti si scostavano e scoprivano sempre qualche centimetro di corpo in più, ma solo negli anni ’70 le rappresentazioni saranno più ruvide ed esplicite, e ciò che prima era alluso o malcelato diverrà indirizzato. La dolce vita (1960) di Federico Fellini scandalizzò Curia e Governo mostrando il crollo morale, i festini orgiastici, l’omosessualità e la lascivia. Il genere peplum narrava spesso, anche se in modo larvato, di lesbismo e sadomasochismo, mentre l’horror italiano riferiva già chiaramente amori saffici e necrofili all’interno di lugubri accadimendi: si pensi a L’orribile segreto del Dr. Hichcock (1962) di Riccardo Freda, La frusta e il corpo (1963) di Mario Bava, Danza macabra (1964) di Antonio Margheriti, Il boia scarlatto (1965) di Massimo Pupillo e Un angelo per Satana (1966) di Camillo Mastrocinque. In alcuni casi, tali pellicole venevano ridotte in cineromanzi e distribuite regolarmente nelle edicole italiane. In altri termini, in quegli anni l’erotismo non costituisce un genere a sé, ma s’infiltra nei vari filoni, contaminandoli.
Seguendo la nostra chiave di lettura, tra i filoni che prenderemo in considerazione figurano il W.I.P. (acronimo anglosassone di Women In Prison, ossia i film sulle carceri femminili) e il nazi-erotico, che pur avendo in comune molti fondamenti, contengono differenze concrete, ipso facto.
Diario segreto da un carcere femminile (1973) di Rino Di Silvestro è il primo film che racconta le quote eccessive, amorali ed estreme che hanno vita negli istituti di pena italiani, anche se già fatto in chiave neorealistica e melodrammatica da Raffaello Matarazzo ne La nave delle donne maledette (1953), Domenico Paolella ne Le prigioniere dell’isola del diavolo (1962) e da Nanny Loy in Detenuto in attesa di giudizio (1972). Di Silvestro trascurò la critica al sistema di Loy, e enfatizzò le brutture vissute realmente dalle recluse ad opera delle secondine. Ne seguì una serie prolifica di film tra i quali va senz’altro ricordato Prigione di donne (1974) di Brunello Rondi. Un leitmotiv che narra della vergogna del proprio corpo violentemente spogliato, l’impotenza per la sua condizione di donna oltraggiata ed umiliata, l’uniforme vissuta come schermo che disgiunge dal mondo reale. È un cinema che sviluppa queste sensazioni. Forse in modo più artistico ed edulcorato in Salon Kitty (1975) di Tinto Brass, dove al gaudente bordello di inizio film segue lo squallido postribolo vivacizzato da meretrici professionali dedite alla politica e meno al sesso.
Il filone nazi-erotico viene lanciato grazie al contributo di tre film per molti versi antesignani: La caduta degli dei (1969) di Luchino Visconti, Il portiere di notte (1973) di Liliana Cavani e Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini. Tre film che analizzano l’ideologia nazista come apologia del potere e dell’abuso. Il relativo scadimento sessuale che muta in perversione, degenerazione umana, corruzione morale e fisica.
Certo è che Visconti è ben lungi dall’aver simpatizzato per la dottrina nazista, ma traspare in modo cristallino la sua fascinazione per gli interpreti in divisa aderente, paladini dell’ipnosi che provocava catalisi del credo germanico nel popolo tedesco e non.
Cogitazione analoga potrebbe farsi per Pasolini e il suo Salò. Ideando e poi filmando, egli non mirava in modo esplicito ad aggredire in maniera indubitabile il fascimo repubblicano. Il fine era quello di fornire la sua prospettiva dell’acme della decenza, dell’opera maestra della morale il cui riferimento più colto ed elevato è De Sade, le 120 giornate di Sodoma, verso cui Salò è ispirato.
La Cavani invece, ne Il portiere di notte, marca il rapporto vittima carnefice, intorno al quale ruota l’intero contenuto del film, uno dei migliori della regista emiliana.
Visconti, Pasolini e Cavani, importanti cineasti del cinema italiano, hanno subìto la malia dell’elemento insano, maniacale, ossessivo. Hanno annusato e poi dato sostanza alla relazione eros-thanatos, innegabilmente affascinante. Da qui il filone nazi-erotico si scinde in due percorsi paralleli. Quello iniziato da Brass, ove si narrano gli enigmi della Gestapo e delle SS, e relativi traditori e quinte colonne. Sul versante parallelo invece, una serie di film sui campi di concentramento con a seguito una pletora di aguzzini e detenute violate. I due sottogeneri presentano difformità evidenti: da un lato s’evidenzia l’introspezione dei protagonisti, anche se in chiave dissoluta; dall’altro invece sono il brutale supplizio e lo strazio ad avere maggior rilievo. Tra le tante produzioni, degno di nota è L’ultima orgia del III Reich (1976), diretto da Cesare Canevari. Un film specchio della Sindrome di Stoccolma, dove la protagonista femminile, Lise Cohen (Daniela Poggi), durante i maltrattamenti subiti dal comandante nazista Conrad von Starker (Adriano Micantoni), prova un sentimento positivo nei confronti del proprio aguzzino, che si spinge fino all’amore, facendo sì che si crei una sorta di alleanza e solidarietà tra lei, la vittima, e il carnefice. Il film è ben girato e dosa sapientemente eros e violenza, tornando sui temi de Il portiene di notte della Cavani, e mostrando molte analogie sceniche con Salò di Pasolini. Fu proprio Pasolini ad attenzionare nel modo più efficace, con la sua cinepresa, l’uso dei giovani esseri umani come cavie per ignobili esperimenti che oltraggiano ed offendono l’uomo. Qui gli esseri umani vengono vilipesi fino ad esserne uccisi. Alla loro morte non viene assegnato il senso dell’eliminazione fisica, ma i loro aguzzini usano ed abusano dei loro corpi per conseguire il piacere incondizionato ed assoluto. Peraltro, a seguito del trittico pasoliniano “della vita”, Salò doveva comporre un secondo trittico, quello “della morte”. Ma la drammatica scomparsa del regista in quella spiaggia ostiense, spense precocemente ogni sviluppo del progetto artistico.
di Antonio La Torre Giordano