Revival
La recensione di Revival, di Dario Germani, a cura di Emanuele Di Nicola.
Tra i pochi registi a portare avanti il genere italiano c’è Dario Germani. Uno che ama e pratica il cinema bis, come si faceva una volta: consapevole che il genere basta a sé stesso, non deve per forza recare messaggi edificanti o significati politici e sociali, insomma essere altro da sé, al contrario può presentarsi solo come film di genere. Solo? Ecco perché, nel suo percorso dietro alla macchina da presa, il cineasta ha toccato le perversioni più svariate, come Antropophagus II, sequel apocrifo del cult di Aristide Massaccesi, a cui seguirà peraltro il tassello Antropophagus Legacy; e come Emmanuelle’s World, che da titolo omaggia il favoloso mondo erotico delle Emmanuelle. Solo per citarne due. Adesso, dal 28 novembre, arriva in sala Revival distribuito da Andrea De Liberato per Enjoy Movie: una diffusione piccola, orgogliosamente di genere, che (anche) per questo va sostenuta a spada tratta.
Rich e Grant sono due malviventi in fuga dopo una rapina finita male: l’uno è un afroamericano molto riconoscibile, l’altro ha una grave ferita alla mano. Sono inseguiti dalla polizia e hanno poche alternative. Non possono dire no all’unica proposta di aiuto: quella di Martin, un anziano medico in pensione che si offre di nasconderli a casa propria, curarli e sostenerli. Inizia l’incubo. I furfanti, accordata la fiducia all’uomo, si ritrovano improvvisamente prigionieri in un laboratorio segreto. Legati al letto, insieme ad altre vittime, diventano le cavie di un esperimento folle: ossessionato dall’idea di ritrovare la moglie defunta, il dottore getta le cavie in un’esperienza pre-morte, cercando di esplorare il confine tra la vita e l’aldilà per arrivare a quella donna fantasma. In altre parole, quasi li uccide coi metodi più svariati per verificare cosa c’è dall’altra parte del tunnel, e poi riportarli indietro… se ci riesce.
Revival inscena l’archetipo della Near death experience, il limbo, lo spazio che corteggia la morte senza cadere nelle sue braccia, che vanta una lunga ascendenza sia in cinema che in letteratura. Il riferimento più immediato sembra essere Re-Animator, col dottor Martin come novello Herbert West nel cult immortale di Stuart Gordon; ma grattando la superficie si arriva a sentire l’eco della narrativa ottocentesca, nella hybris dell’uomo di sapere cosa c’è dopo la morte, come ne Il caso Valdemar di Edgar Allan Poe. E nel mito perenne di Orfeo ed Euridice, il sogno impossibile di recuperare l’amata dal regno infero. Detto ciò, il film tiene e diverte fino in fondo, schierando deliri metafisici e ritagliando alcuni momenti splatter impensabili nella produzione commerciale; poi sconta i naturali limiti di budget, soprattutto nella messinscena dell’oltremondo che si appoggia sul digitale, ma resta davvero una mosca bianca. Nell’epoca del cinema educato e “significativo”, il genere puro di Germani è una boccata d’aria fresca.
di Emanuele Di Nicola