Cinema scandinavo: crisi esistenziali e nuove identità

Pubblichiamo un estratto dell'articolo di Giovanni Ottone che può essere letto in tutta la sua lunghezza sulla versione cartacea di CineCritica n. 57.

Lars Von Trier

I Paesi posti geograficamente nell’area nord-occidentale dell’Europa (Danimarca, Finlandia, Svezia, Norvegia ed Islanda) costituiscono un’estesa regione, popolata complessivamente da circa 25 milioni di abitanti. Rappresentano una “koiné” civile, anche se non mancano le differenze culturali e comportamentali tra le rispettive popolazioni. Peraltro aderiscono tutti, congiuntamente, al “Nordic Council”, ambito di intese politiche ed economiche, e cooperano in varie istituzioni ed organizzazioni politiche, economiche, culturali e cinematografiche (tra cui il  “Nordic Film & TV Fund” che è responsabile di importanti programmi di investimenti  e di incentivi nel settore audiovisivo).

Nel cinema dei Paesi Nordici non sono mancati, nel corso del ’900, i grandi maestri: dal danese Carl Theodor Dreyer allo svedese Ingmar Bergman. La loro ricerca, legata spesso a matrici letterarie, ha indagato le ragioni morali dei comportamenti umani, nel quadro e al di là dell’etica protestante. La generazione dei registi venuti alla ribalta negli anni ’60 (tra cui gli svedesi Bo Widerberg e Jan Troell e i norvegesi Anja Breien, Vibeke Lokkeberg, Martin Asphaug e Svend Wan) si espresse, negli anni ’70 ed ’80, con un’autorialità socio-realista.

In seguito, negli ultimi tre lustri, si è assistito all’emergere di una generazione di nuovi autori, attenti alle disfunzioni sociali ed alle difficoltà relazionali tra gli individui, che hanno optato per una rottura narrativa ed estetica rispetto ai precedenti modelli. In questo quadro, non vi è dubbio che il “Manifesto Dogma 95”, dei registi danesi Lars Von Trier, Thomas Vinterberg, Soren Kragh-Jacobsen e Kristian Levring, ha costituito una sfida forte di carattere tecnico-estetico, pur non priva di contraddizioni, che ha influenzato anche i cineasti dei Paesi vicini, rendendo evidente la possibilità di ottenere successi di pubblico con budget produttivi limitati e con l’uso della videocamera digitale. In sostanza i loro film hanno costituito una sorta di ponte tra le cosiddette opere arthouse ed il cinema commerciale. Tuttavia, nel caso del cinema recente dei Paesi Nordici, si deve senz’altro parlare, non di un movimento estetico unitario di rinnovamento, a partire da una teoria, quanto di nuovi linguaggi cinematografici che si impegnano a ridefinire crisi esistenziali e fattori di alienazione.

L’industria cinematografica dei Paesi Nordici deve la sua buona capacità operativa a specifiche legislazioni nazionali di sovvenzioni statali alla produzione. In sintesi, nel 2008, nei cinque Paesi Nordici, sono stati prodotti complessivamente circa 120 lungometraggi ed il market share per il cinema nazionale (vale a dire la percentuale di pubblico per i film nazionali rispetto agli ingressi totali) è stato, in media, pari al 20%, in ognuno dei singoli Paesi.

Tradizione teatrale, drammi e commedie

Il punto in comune tra le cinematografie dei Paesi Nordici è senz’altro quello dell’attenzione privilegiata dedicata al ruolo ed alla figura dell’attore, in ragione di un preciso riferimento alla tradizione teatrale. In effetti  molti dei nuovi autori, emersi dagli anni ’90 ad oggi, privilegiano gli spazi chiusi (huis clos), materiali o simbolici, per sviluppare il potenziale drammatico dei loro film. Peraltro, anche nel caso dei registi del movimento “Dogma 95”, il problema dello spazio risulta fondamentale, anche in ragione dei loro postulati estetici a favore di un rapporto pragmatico tra la macchina da presa e la realtà, liberatori nei confronti di vincoli tecnici e scenografici (gli artifici tradizionali dati da illuminazione, arredi scenici, musica ed alienazioni temporali e spaziali) e volti ad evidenziare al massimo il dispositivo cinematografico. Nei film dei registi nordici contemporanei lo spazio è gestito come un palcoscenico teatrale, eccellente condizione per mettere a fuoco anima e comportamenti dei personaggi, attraverso una dialettica tra interno ed esterno, ma anche tra sentimenti intimi ed espressioni esteriori. È in questo spazio che vengono mostrate, con lucida radicalità, relazioni interpersonali e familiari, spingendo i confronti fino alla violenza ed a conseguenze estreme di annichilimento o di catarsi liberatoria rispetto a qualsiasi controllo. Si può certamente affermare che il movimento Dogma ha posto l’attore al centro del dispositivo cinematografico, considerando anche che, nel caso dei film girati e certificati secondo quelle regole, solo gli attori potevano leggere le sceneggiature, mentre i produttori ne erano interdetti. Peraltro, anche altri registi danesi e quelli dei Paesi vicini, che hanno  utilizzato parzialmente le regole di Dogma, per marcare il carattere indipendente delle loro produzioni, privilegiano attori professionisti, spesso con un importante esperienza teatrale. Nel loro lavoro di direzione limitano molto, o controllano strettamente, l’improvvisazione interpretativa. Inoltre, occorre considerare che, dal 1996, la comparsa della videocamera digitale  ha consentito di seguire costantemente l’attore in tutti i suoi  movimenti ed in tutte le situazioni.

Una delle regole del “Manifesto Dogma 95” vieta tassativamente di girare film di genere. In realtà si può affermare che larga parte del cinema dei nuovi autori dei Paesi Nordici è rappresentata da opere che rileggono criticamente generi diversi, applicando formule note, ma situando l’azione in contesti originali e credibili.

In primo luogo occorre considerare i melodrammi, costruiti a partire da sceneggiature originali o adattando opere letterarie. Si tratta di film che si distaccano dalla tradizione precedente dei rigidi drammi di costume, caratterizzati da pesanti e noiose implicazioni morali. I temi sono vari: le relazioni di coppia, con tradimenti, separazioni e ricomposizioni non scontate; le relazioni familiari, tra recriminazioni, conflitti generazionali, complesse interazioni genitori-figli e disgregazioni; la condizione femminile in relazione al ruolo materno ed al rapporto con il lavoro; la solitudine; la difficile condizione giovanile di fronte a problemi quali la droga e la violenza; i problemi degli immigrati extracomunitari dai Paesi mediorientali, asiatici ed africani. Nella maggior parte dei casi l’ambientazione è urbana ed i protagonisti sono giovani della classe media o alta con buon inserimento lavorativo professionale. In effetti la nuova generazione di cineasti è interessata a girare film che parlano di persone della loro età ed a rappresentare situazioni di emergenza e di disagio e nuove identità esistenziali.

In secondo luogo vi sono le commedie, quelle drammatiche e realiste e quelle surreali, con episodi tragicomici e personaggi  eccentrici. Sono molti i film dedicati all’universo giovanile dei teenagers e dei ventenni, con interessanti esplorazioni di temi quali le relazioni interpersonali, la sessualità, il confronto generazionale ed il rapporto con le istituzioni. Peraltro i film comici più significativi sono rappresentati da alcuni esempi corrosivi di satira sociale, tra iperrealismo e humour nero. Descrivono personaggi apparentemente poco convenzionali e sviluppano sguardi incisivi, con valenza generale, evidenziando le contraddizioni della vita contemporanea.

In terzo luogo, tralasciando i film con un profilo più squisitamente commerciale o di nicchia (di genere fantastico, horror o epico-storico), occorre citare i thrillers e i polizieschi, che spesso giocano sulla relazione tra uomo ed ambiente, in contesti suggestivi o anomali, e gli esempi di cinema politico che evidenziano, pur con qualche forzatura narrativa o con elementi di moralismo,  meccanismi perversi di gestione di settori dello stato o della politica o dei media o delle imprese.
In generale la produzione cinematografica di questi Paesi dipende in misura determinante dagli organismi statali preposti al sostegno ed al finanziamento secondo specifici criteri. Sarà peraltro evidenziato che, con modalità differenti a seconda dei Paesi, con il volgere del millennio, sono avvenute importanti riforme istituzionali e dei meccanismi di finanziamento, con conseguenze anche per i produttori indipendenti. Inoltre analizzeremo, nell’excursus dedicato qui di seguito alle tre maggiori cinematografie scandinave (quelle della Danimarca, della Svezia e della Norvegia), i registi ed i film più significativi dell’ultimo decennio, raggruppandoli in relazione a tendenze o a generi che sono stati reinterpretati.

Danimarca

La dinamica produttiva del cinema danese dipende dalle sovvenzioni del “Danish Film Institute (DFI)”, fondato con lo scopo di favorire un’alternativa al cinema industriale, quantunque, come vedremo, la sua politica attuale sia parzialmente differente. L’Institute opera mediante un sistema di valutazione e di incentivazione dipendente dal lavoro di un organico di “assessori” o esperti che, sulla base di diversi criteri artistici ed economici, scelgono i progetti di film a cui concedere un finanziamento per la produzione. Il DFI comprende la “Danish Film School (DFS)”, fondata nel 1966, presso la quale, nei primi anni ’90, si diplomò una nuova generazione di registi, attori, fotografi e produttori. Alcuni di loro si unirono e fondarono case di produzione indipendenti, tra cui le tre più attive, Zentropa, Nimbus Films e Cosmo, che hanno realizzato finora alcuni dei film di maggior qualità, ma anche di maggior successo presso il pubblico, della cosiddetta “Danish New Wave” .

Il nuovo accordo statale quadriennale, emanato nel 2006, stabilisce che il DFI conceda sovvenzioni in percentuale uguale, pari al 40% del budget previsto, sia a progetti di film considerati di qualità, sia a quelli con un profilo più commerciale. Questa norma è stata criticata da più parti, essendo considerata molto negativa perché in precedenza veniva privilegiato il merito artistico e venivano concesse sovvenzioni agli  arthouse film in misura  pari al 60% del budget previsto. Per queste e per altre ragioni, le due note case di produzione Zentropa e Nimbus Films, a partire da 2008, hanno sofferto gravi difficoltà. Peraltro anche la potente Nordisk Film risulta attualmente in perdita. Tuttavia, nonostante i suddetti sintomi di crisi del settore, dalle statistiche risulta un quadro soddisfacente del mercato. La produzione e la distribuzione cinematografica si sono assestate su una quota media annuale di 25 lungometraggi, tra il 2002 e il 2008. Attualmente sono presenti 167 sale cinematografiche (394 schermi). Nel 2008 sono stati venduti complessivamente 12,1 milioni di biglietti (la popolazione del Paese è di 5,5 milioni di abitanti) ed il market share per il cinema nazionale è cresciuto progressivamente negli anni, dal 19,8% del 2002 al 26% del 2008.

I primi segnali di un rinnovamento nel cinema danese risalgono al 1994, anno in cui Lars Von Trier realizzò il noto serial televisivo The Kingdom, un divertente thriller, con una deriva francamente horror perché un ruolo centrale è assegnato alla presenza di fantasmi. Quel lavoro rappresenta l’inizio di un stile visivo caratterizzato dall’uso della telecamera a mano e dal movimento continuo degli attori nello spazio scenico. Quindi è preliminare alla sua trilogia drammatica, comprendente Breaking the Waves (Le onde del destino, 1996), The Idiots (Idioti, 1998) e Dancer in the Dark (2000), ed ai successivi film del movimento Dogma. Peraltro, nello stesso anno, Night Watch, il lungometraggio di esordio di Ole Bornedal, registrò un grande successo di pubblico. Si tratta del thriller che ha inaugurato, in qualche modo, il genere in Danimarca e che ha segnato, secondo l’opinione dei critici, l’inizio della “Danish New Wave”. Pur muovendosi nel solco dei film statunitensi, costituì una novità perché descrive una generazione di ventenni, cerca di catturare lo spirito dell’epoca, mettendo a fuoco temi come la sessualità e la mortalità, ed  utilizza tutti gli effetti speciali disponibili, scelta inusuale nel contesto danese di quell’epoca (giova ricordare che lo stesso regista, ha diretto, a Hollywood, nel 1998, il remake del film, con lo stesso titolo, ma con la sceneggiatura di Steven Soderbergh).
Come già detto, il movimento Dogma influenzò i registi affermatisi posteriormente al 1995. Tuttavia molti di essi ne mantennero in qualche modo lo spirito innovatore e indipendente, ma si distanziarono da quelle norme o le applicarono in modo non ortodosso, realizzando film di genere che hanno avuto spesso un buon successo di critica e di pubblico. Nel caso del melodramma, è indubbio che Celebration (Festen), realizzato nel 1998 da Thomas Vinterberg, un dramma familiare crudo e poetico, scandaloso e radicale, girato con grande vigore e naturalezza ed interpretato da un cast di eccellenti attori, abbia aperto la strada ad alcuni dei registi più versati in questo genere.

Susanne Bier, con precedenti esperienze di studi su temi quali le religioni comparate e l’architettura, rivela, nei suoi drammi, una costante attenzione a temi quali le dinamiche familiari, la passione amorosa, tra tentazioni e tradimenti, la solitudine e i conflitti culturali. Al centro dei suoi film vi sono i personaggi, con le loro relazioni affettive ed anche erotiche. Essi vivono intensi sconvolgimenti interiori quando sono posti di fronte a scelte difficili in conseguenza di eventi o di incontri fatali. Non mancano gli stereotipi, ma il suo stile immediato e la sua indubbia capacità di dirigere gli attori, orientandoli a calarsi nei personaggi da interpretare, garantiscono l’efficacia della narrazione. La sua principale debolezza è invece da individuare nella spiccata strumentalità delle situazioni raccontate che punta a suscitare facili “emozioni forti” nello spettatore. I suoi melodrammi sono diventati alcuni dei più importanti successi prodotti dalla Zentropa: Open Hearts (2002), Brothers (2004) e After the Wedding (Dopo il matrimonio, 2006). Peraltro il suo recente esordio ad Hollywood, Things we Lost in the Fire (2007), che racconta una controversa relazione sentimentale che nasce dal dolore, nonostante il ricco cast che comprende Halle Berry, Benicio del Toro e David Duchovny, è pasticciato, prevedibile e pieno di cliché.

Per Fly ha dimostrato, nella sua nota “trilogia classista”, comprendente The Bench (2000), Inheritance (2003) e Manslaughter (2005), un approccio più solido. I suoi film drammatici descrivono crisi morali, individuali e familiari, di personaggi di diverse classi sociali, attraverso una rappresentazione del contesto sociale con una chiara valenza politica. I temi delle storie, la coscienza e i principi, la responsabilità e la colpa, sono trattati con efficacia, anche se con qualche limite di eccessiva enfasi. Ugualmente significativo è Time for a Change (2004) di Lotte Svendsen. Questo film offre il duro ritratto di alcuni marginali, evidenziando le contraddizioni dello stato assistenziale. Il suo sguardo, a tratti impietoso, a tratti empatico rispetto ai personaggi, è rafforzato da un tagliente humour nero, a metà strada tra il cinema di Ulrich Seidl e quello di Mike Leigh.

I film di Chistoffer Boe sono più radicali e sperimentali. Allegro (2005) è un dramma che sconfina nel thriller e nel racconto fantastico, mentre Offscreen (2006) è una parodia morbosa dell’ossessione per l’immagine che, pur con una certa deriva narcisista, si converte in un dramma inquietante, durissimo e disperato. Di notevole interesse anche A Soap (2006) dell’esordiente Pernille Fischer Christensen, un film a metà strada tra una soap opera atipica e un classico melodramma. Girato prevalentemente in spazi chiusi, racconta, con humour, sensibilità ed audacia documentaristica, una relazione di amicizia e  di amore complicata ed assolutamente non ortodossa.

Anche nel caso delle commedie è necessario esaminare in primo luogo i film girati secondo i canoni di Dogma. Mifune (1999), di Soren Kragh-Jacobsen, propone un efficacissimo confronto tra affetto ed opportunismo e sviscera i sentimenti fino alle più estreme conseguenze, mettendone a nudo la verità. Italians for Beginners (Italiano per principianti, 2000) di Lone Scherfig, è un film corale, brillante ed intelligente, con un sottofondo un po’ dark, che vede coinvolti diversi personaggi  in una buffa esperienza di viaggio di gruppo a Venezia per apprendere la lingua italiana. Descrive le problematiche di persone singles, timide, fragili e molto diverse tra loro, ma tutte alla ricerca dell’anima gemella. Molti sono frustrati dai ricordi di genitori autoritari o meschini o alcolisti. The One and Only (1999), è stato il film che ha consacrato Susanne Bier, essendo stato ben accolto dalla critica ed avendo avuto uno straordinario successo di pubblico (è stato visto da circa un sesto della popolazione danese, il miglior risultato al box office, per il cinema nazionale, negli ultimi 15 anni). È una divertente descrizione delle complesse dinamiche che coinvolgono due coppie. Nel finale i protagonisti, grazie ad un fortuito ma conveniente evento luttuoso, pervengono a formare una famiglia allargata atipica.

Anders Thomas Jensen, già prolifico sceneggiatore di talento (ha collaborato ai film più importanti della Bier e della Scherfig) è una delle personalità più rilevanti del nuovo cinema danese. Si presenta come politicamente non corretto, ma si è certamente dimostrato molto competente e capace di comprendere le sfaccettature della natura umana. I suoi film, Flickering Lights (2000), The Green Butchers (2003) e Adam’s Apples (Le mele di Adamo, 2005), sono racconti morali poco ortodossi, caratterizzati da un humour nero irriverente e da toni grotteschi e paradossali. Anders Thomas Jensen è lo sceneggiatore di Clash of Egos (2006), di Tomas Villum Jensen, già attore e anch’egli passato alla regia. Questo film è una satira feroce che mette alla berlina la professione del regista cinematografico. In effetti, il personaggio del giovane regista isterico, infantile ed arrogante, autore di film pretenziosi, assomiglia, in forma caricaturale, a Lars Von Trier. Peraltro anche lo stesso Von Trier ha realizzato una commedia divertente, relativamente semplice, ma non convenzionale, intitolata The Boss of it All (Il grande capo, 2006).

Negli ultimi anni sono stati realizzati anche vari thriller a sfondo politico.  Ne citiamo un paio fra i più recenti. King’s Game (2005), opera prima di Nicolaj Arcel, ripropone con intensità le formule dei classici statunitensi, traendo spunto da alcuni incidenti reali che hanno coinvolto personalità del partito conservatore danese. What no one Knows (2008), di Soren Kragh-Jacobsen, ispirato anch’esso da fatti reali, racconta la vicenda di un uomo ordinario, coinvolto, suo malgrado, nelle losche trame dei servizi segreti. Un caso specifico è quello di Nicolas Winding Refn che ha realizzato un’impressionante trilogia di gangster movies riguardanti il mondo dei trafficanti di droga. Comprende Pusher (1996), With blood  on my hands – Pusher II (2004) e I’m the angel of death – Pusher III (2005). Questi film descrivono, con crudo realismo ed efficaci soluzioni drammatiche, lontane dai clichés, un universo multietnico popolato da piccoli gangsters esaltati, prostitute e poliziotti corrotti. Ne risulta una convincente mescolanza di personalità estreme, ideali piccolo borghesi, emozioni forti e violenza insensata.


di Giovanni Ottone
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