Gian Vittorio Baldi: alla ricerca di altri suoni

Dalle giovanili collaborazioni per la televisione, per scoprire i segreti del suono e del colore, alle esperienze da produttore, per realizzare progetti impossibili, opere provocatorie e innovative come quelle di Straub, Pasolini, Dreyer e Bresson, alla regia di film-limite che hanno raccontato la vita degli emarginati o la violenza autodistruttiva degli sconfitti o, come nel caso di “Nevrijeme”, l’angoscia per una guerra terribile e per le sue vittime innocenti. Gian Vittorio Baldi parla del cinema più amato e delle battaglie per difenderlo.
Quale fu il tuo primo approccio significativo con il cinema?
Da ragazzo non ero uno spettatore particolarmente assiduo. Poi avvenne un fatto insolito: mio fratello ottenne un contratto con il quotidiano “Il Sole” e curava una rubrica di segnalazioni cinematografiche. Dopo un po’ si è stancato di scrivere quegli articoletti e mi ha proposto di sostituirlo. Io ero molto giovane, un adolescente e quindi ero pazzo di gioia all’idea di entrare con una tessera nelle sale cinematografiche e vedere gratis tutti i film che volevo. Erano i primi anni del dopoguerra e, dopo l’embargo del fascismo, le sale erano invase da film statunitensi di ogni genere e anno. Ricordo che vedevo solo film americani, musical, film di gangster, commedie, film d’azione, insomma tutto quello che c’era in quel momento sulla piazza di Milano. Feci un’abbuffata di cinema ma, paradossalmente, non vidi nessun film che mi colpisse profondamente. L’unica cosa che mi colpì fu il potere che all’epoca aveva il cinema, il carisma sulla gente di tutte le età… un fenomeno che oggi non esiste più. Ma era il cinema come evasione pura, come grande o medio spettacolo, come fiera dei divertimenti e mi svagava dalla fatica delle lezioni di latino e greco del liceo Parini, il più severo di Milano…
Che cosa scrivevi di questi film?
Dovevo solo raccontare la trama, non esprimere giudizi sui film. Il giornale si era accordato con i distributori per fare pubblicità ai film. Ecco, rimasi incantato dal cinema quando con la famiglia passammo da Milano a Roma. Mi iscrissi all’Università Internazionale degli Studi Sociali (l’attuale LUISS) e cominciai a pensare a quale fenomeno estetico e culturale potesse essere il cinema. In quegli anni, alla fine dei ’40, scoprii i film di De Sica… Ricordo che con altri studenti avevamo corrotto il proiezionista per guardare di nascosto i provini per Miracolo a Milano. De Sica se li faceva proiettare in una sala. Da una parte c’erano quelle immagini e in platea sedeva lui, che ci sembrava una figura mitologica…
In quel periodo c’era l’Anno Santo e l’Università selezionò tre studenti perché facessero l’apprendistato in televisione e la Tv che avrebbe ripreso i riti era quella francese perché la RAI non esisteva ancora. Io ero uno dei tre fortunati. Iniziai facendo il cameraman, l’operatore, il montatore. Ricordo che, grazie all’Università, vidi De Sica anche da vicino e non solo nel buio come un semidio, perché il direttore invitava alcuni registi italiani per brevi incontri con gli studenti. De Sica era un uomo dai modi estremamente gentili, era sinuoso, sciolto, delicato e seducente nel parlare. All’università, con me c’erano Fabiano Fabiani, che poi è diventato direttore della televisione e presidente del’IRI, uno che non ha mai smesso di occupare posti di potere, e poi c’era Ettore Scola. Un altro regista che ammiravo molto allora e per sempre era Rossellini, di cui sarei diventato amico quasi vent’anni dopo. Ricordo anche che all’università un giorno venne Fellini che avrà avuto appena trent’anni. Credo che avesse fatto solo Lo sceicco bianco e tentava di farsi appoggiare un progetto difficile, che nessuno voleva produrre. Era La strada… Nessuno avrebbe immaginato il successo che ebbe e infatti anche la mia università lo accolse senza particolare entusiasmo. Ma Fellini era già un incantatore di serpenti…
Negli anni ’50 m’innamorai del cinema italiano. Era il cinema che preferivo. Anche se amavo Rossellini, ricordo che non riuscii a capire i suoi film con la Bergman. Poi mi piacevano Germi e i primi film di Antonioni, Cronaca di un amore, La signora senza camelie. Tentai anche vanamente di fare l’assistente per Michelangelo ma mi ha sempre detto di no. Poi lo conobbi bene e diventammo amici. Mentre già lavoravo per la RAI e tentavo di entrare nel cinema.
Come andò la tua prima esperienza con la televisione?
Lavorai alla televisione francese per un anno. Devo moltissimo a questo periodo: tutto ciò che ho imparato sullo studio della luce, il calore della temperatura, lo devo a questa esperienza manuale, da apprendista falegname. Andavo in giro con questi macchinoni enormi, le telecamere dell’epoca, cambiando gli obiettivi, avevo la cuffia e c’era il direttore tecnico, l’ingegner Cuturi, poi dirigente RAI, che mi dava gli ordini. Dopo sei mesi andai al montaggio. Dovevi comporre l’immagine, regolare anche la messa a fuoco, mentre adesso è automatica. Lavorai solo con telecamere. Feci anche esperienza del suono. Mi fecero fare un corso.
Io provenivo da una famiglia profondamente cattolica. Ricordo che la prima volta che sono entrato negli uffici del Vaticano, andai ad affacciarmi di soppiatto dai balconi dove appariva il Papa. Era ed è proibito, e mi divertii un mondo a sostituirmi al papa…
Eri tentato di disobbedire in qualche modo?
No, ero molto obbediente. Mi limitai a immaginarmi papa per due secondi. L’ambiente vaticano non l’ho visto, non l’ho neanche sfiorato, ma quel poco che vidi non mi piaceva e il resto non mi interessava. Era un universo che ti schiacciava in tutti i sensi, dominato da un ordine e da una gerarchia inconcepibili. Ma io ero totalmente assorbito dalla dimensione tecnica del mio lavoro e basta. C’era anche un prete domenicano, Perlaval, che controllava il nostro operato in modo capillare e visionava tutto ciò che facevamo. Ecco, ciò che mi colpì veramente di quell’esperienza e mi accese qualcosa furono le riprese in piazza San Pietro nel corso dell’Anno Santo, quando feci attenzione alle variazioni di suoni, dalle musiche ai canti, e poi le carrozze coi cavalli, le guardie svizzere e la varietà continua, infinita e ricchissima della realtà del suono. Subito dopo iniziai a fare i miei primi cortometraggi e poi il concorso per entrare in RAI, nello stesso periodo di Umberto Eco.
I tuoi primi cortometraggi e anche i successivi erano agli antipodi dalle produzioni RAI…
Sì, in quel periodo mi interessavano molto le problematiche sociali. Ero convinto che bisognasse usare il cinema, anche nel mio piccolo, per sviscerare i guasti della società e migliorare le condizioni di vita della gente. Votavo già per i partiti della sinistra ma non ero iscritto. In fondo era anche una forma di ribellione all’ambiente da cui provenivo e a quello in cui lavoravo, anche se non entravo in polemica con nessuno. Per i miei corti, ho girato in 35 mm, ho usato anche il 16 cercando la semplicità e l’efficacia, perché girare con queste cineprese immense ti impediva tante cose.
Poi arrivò la svolta di Cinquant’anni, il programma televisivo più visto del 1958…
Sì, sembrava niente e invece ha avuto un esito importante. Mi hanno spostato dal Centro di produzione di Clodio, dove lavoravo, alla diretta dipendenza della direzione generale di via del Babbuino perché volevano controllare tutto dall’A alla zeta. Non ci chiamavano registi ma “allestitori”. Cinquant’anni era una trasmissione sulla storia d’Italia, dove c’erano frammenti in cui apparivano personaggi viventi e potenti, quindi bisognava essere cauti e loro vigilavano. Per la prima volta dalla caduta del fascismo, veniva usato materiale del LUCE. Questo progetto fu proposto da Emilio Gennarini dopo un vaglio accuratissimo di consulenti, politici, autorità varie, fra cui anche don Sturzo coi suoi collaboratori. Discussero a lungo se era o no il caso di fare rivedere Mussolini con la sua voce, tredici anni dopo. Ci furono delle censure e scoppiò perfino qualche episodio isolato di violenza, qualcuno distrusse una tv in un bar. L’autore del commento, Silvio Negro, era un uomo d’ordine e l’avevano scelto perché era il più grande esperto di storia vaticana del “Corriere della sera”, ma soprattutto perché era molto ligio e zelante… Ebbi continuamente conflitti con lui, io volevo togliere togliere togliere… Andai a fare ricerche di filmati d’archivio in mezza Europa, a Parigi, Bruxelles, a cercare materiale di repertorio presso collezionisti privati, nelle cantine… le ricerche durarono anni. Non riuscii a trovare la fucilazione di Ciano. Fu con questo programma che iniziai seriamente a fare il montatore e mi resi conto che si può inventare ciò che non esiste. Era la prima volta che gli italiani rivedevano la loro storia recente e fu un trionfo. Mi aprì molte porte.
Nello stesso periodo, hai realizzato dei cortometraggi che, anziché essere film occasionali, rientravano in un progetto preciso…
Sì, nella mia assoluta presunzione, volevo fare un film su alcune strade emblematiche di ogni grande città d’Italia per dare un’immagine della penisola più emarginata, povera e sofferente, degli emigranti. Insomma volevo mostrare l’Italia nascosta, non ufficiale, reale e drammatica. Così feci La casa delle vedove, Via dei Cessati Spiriti, Luciano (via dei Cappellari) a Roma, Il bar di Gigi a Torino, ogni film era una tranche de vie, uno spaccato e sognavo di inanellarli tutti insieme in un lungometraggio.
Quale metodo seguivi?
Sceglievo i personaggi reali che mi ispiravano di più e, se accettavano, registravo un’intervista con loro, le testimonianze, i racconti delle loro vite. Poi selezionavo i brani che mi sembravano più significativi e glieli facevo ripetere davanti alla mdp e al microfono. Goffredo Fofi mi diede dei consigli utili per Il bar di Gigi. Con quei film, potei continuare le ricerche sul sonoro che mi affascinava particolarmente. Questa fascinazione forse era dovuta al fatto che, avendo vissuto l’infanzia in campagna e quindi conoscendo bene il silenzio e i suoni della natura, nella loro gamma estremamente varia, mi disturbavano le convenzioni del sonoro del tempo. I fonici lavoravano in una stanza piccola con il microfono e riproducevano ogni suono in studio. Il doppiaggio era fatto sempre dalle stesse persone. La distanza del suono non cambia mai ma era sempre la stessa. Variava solo il volume. Invece io ero affascinato dalle infinite equazioni che possono nascere dai suoni della realtà, che muta a seconda dei suoni che le associ. Anche quando noi parliamo, la voce ha modulazioni diverse a seconda dell’ambiente in cui si trova. Questo vale anche per la luce che varia continuamente secondo per secondo e variano le sue gradazioni. Ecco perché io sono per la luce naturale.
Volevo intervenire sui colori. Avevo chiesto al mio tecnico del colore, Gino Appignani, di attenuare i cromatismi di Il bar di Gigi, Ritratto di Pina, La casa delle vedove e Luciano (via dei Cappellari). Se vedi le copie originali, ti puoi rendere conto che il colore è stato lavato. Quando registri con un supporto analogico il colore, hai un risultato fisso. Io facevo lavare il negativo per avere un risultato diverso e inciso, come nella pittura. Purtroppo il negativo di questi film è stato rubato.
Come avvenne il passaggio al lungometraggio?
Fu Flaiano, che conobbi in quel periodo, il 1960 circa, che vide Luciano e mi segnalò alla Federiz, la società appena fondata da Fellini con Rizzoli in via della Croce, per sostenere i progetti dei giovani registi. Fra le persone che incontrai nelle anticamere ci furono Pasolini e De Seta. Ma nessuno di noi tre realizzò nulla per la Federiz, che peraltro non produsse niente. Dopo poco tempo, l’amministratore generale, Clemente Fracassi, ci mandò a chiamare per dirci che i nostri progetti erano annullati perché Federico aveva deciso di lavorare al suo film. Ognuno di noi aveva un contratto e fu annullato, dall’oggi al domani.
Luciano lo realizzasti infatti per la Corona cinematografica. Ma in bianco e nero, mentre il cortometraggio era a colori…
Non riuscii ad avere la collaborazione di Appignani perché era andato in Australia, ma anche i mezzi erano scarsi e, infatti, qualche volta ho dovuto interrompere la lavorazione. Lo realizzai con grandi difficoltà. Per fortuna, a un certo punto ottenni un aiuto economico da parte di Anna Moffo, che mi sbrogliò qualche problema. Il film aveva avuto guai fin dal titolo: l’avevo cambiato da L’imperatore di Roma a Madre ignota, ossia “mignotta” e non lo accettarono. Luciano, comunque, mi piaceva mentre il sottotitolo alla Pasolini che gli hanno appioppato, Una vita bruciata, lo detesto, snatura il film come un’etichetta moralistica. Nel film, invece, non c’è nessun pregiudizio di tipo morale, c’è la volontà di raccontare la vita di questo giovane ladro di via dei Cappellari, Luciano Morelli, che mi aveva colpito. È un personaggio che oggi non si potrebbe neanche immaginare, con le sue convinzioni, una sua autenticità fondata sulla fedeltà a certi principi. Era legatissimo alla famiglia. Alla madre in particolare, che era la persona più importante della sua vita. Era un ladro contento e fierissimo di quello che faceva, la riteneva una professione degna di tutto il rispetto. Allo stesso tempo aveva una sessualità anfibia e si prostituiva anche. Questo aspetto nel film è molto dissimulato, occultato. L’Italia di questi personaggi, selvaggi, drammatici ma sinceri in ciò che facevano, è stata spazzata via, come ha scritto Pasolini.
È stato scritto che lo studi nei suoi movimenti come farebbe un entomologo…
Sì, questa cruda definizione è in parte giusta, ma bisogna aggiungere che lo guardo anche con rispetto e credo che si avverta l’emozione che mi suscitava, con la sua drammaticità senza soluzione. L’episodio di pedofilia che viene evocato nel film è reale e costituisce solo una piccola parte di ciò che ha vissuto. Quand’era ragazzino, sua madre, che evidentemente voleva liberarsi di lui, con un inganno lo portò in un commissariato e da lì fu rinchiuso nel correzionale, dove ha passato degli anni. Ciononostante, l’immagine di sua madre era sacra per lui. Paolo Valmarana mi disse che la sequenza del dialogo col padre superiore doveva essere tagliata. Ma io non lo ascoltai. Luciano fu colpito dalla censura religiosa e non potè uscire per cinque anni. Il giudizio della curia all’epoca era fondamentale. Rimasi tagliato fuori per anni come regista, non riuscii più ad avere finanziamenti per nessun progetto. Facevo addirittura fatica a mettere insieme il pranzo con la cena. Ho vissuto da emarginato. Infatti per realizzare Fuoco! dovetti trovare io stesso i finanziamenti.
Mi portai dentro il progetto di Fuoco! per sette anni: la follia improvvisa, la ribellione contro tutti, la violenza che però si accanisce contro la famiglia e non contro l’esterno… erano alcuni temi di questo fait divers che mi avevano colpito. Produssi il film con un articolo 28, avevo una piccolissima somma entro cui riuscii a rimanere. Fu girato in quattordici giorni in 16 mm, poi gonfiato a 35 mm e presentato a Venezia. Lo girai in fretta e furia con tutte le persone che stavano intorno a me e nei luoghi reali di un paesino, Capranica di Sutri. Fu girato con una tensione costante, in uno stato di malessere e benessere. Le riprese avvennero nell’ordine narrativo, come non si fa mai. Feci costruire delle rotaie sul soffitto così che gli attori potessero muoversi senza mai incontrare intralci. L’operatore guardava nella mdp come se fosse il periscopio di un sommergibile. È diviso in quattro parti: pomeriggio, sera, notte e alba. Le parti sono divise in quattro sequenze e ogni sequenza è divisa in quattro inquadrature, ogni inquadratura, a sua volta, è suddivisa in quattro movimenti. Questo crea un ritmo particolare, non lo vedi, non te ne accorgi ma è dato proprio dalla scansione in numeri. Ho fatto lo stesso anche in Nevrijeme.
*Estratto dell’intervista a Gian Vittorio Baldi pubblicata sul n.57 di CineCritica
di Roberto Chiesi