Arirang, il ritorno alla vita di Kim Ki Duk

”Dormivo. Cannes mi ha risvegliato”.  Ritorna alla vita con Arirang, un documentario toccante, intimo e struggente , il regista coreano Kim Ki Duk, accolto con un lungo applauso dal pubblico del festival di Cannes – stipato in una sala gremita di 1600 posti – che l’ha salutato commosso dopo la sua affermazione. Il prolifico regista vincitore del primo premio Un certain Regard 2011, ex equo con il tedesco Andres Dresen, ha presentato la sua ultima fatica –  in questo caso fuori dalla metafora –  che documenta la difficoltà esistenziale dell’uomo/artista che nei momenti di maggiore desolazione intona, come un mantra, e poi urla a squarciagola con una voce che si rompe nel pianto, ‘Arirang’, una dolente nenia che rimanda ad un dolore antico legato alla cultura del suo Paese. Kim Ki Duk dopo aver realizzato nel corso di tredici anni quindici splendidi film, tutti caratterizzati dalla ricerca della natura dell’uomo, della sua spiritualità e dei suoi istinti più reconditi, ottenendo prestigiosi riconoscimenti a Venezia, a Cannes e a Berlino, era infatti scomparso da tre anni. Le voci lo davano come malato e comunque ormai fuori dalla produzione di film. Invece Kim Ki Duk  ha vissuto come un eremita da solo in una desolante casa di campagna al cui interno ha installato una tenda in cui dormiva, riducendo al minimo i suoi bisogni e costruendo da se utensili e oggetti di prima necessità. Ha lasciato il cinema dopo l’incidente avvenuto nel corso delle riprese di Dream, in cui la protagonista ha rischiato di morire impiccata. Dopo questo episodio Kim è scivolato in una profonda depressione rinchiudendosi in se stesso e cercando dentro di se il senso della vita e riflettendo sulla sua‘urgenza’ di fare cinema. Con il solo supporto di una camera digitale ha ripreso se stesso mettendo in scena,  e restituendoci drammaticamente, tutto il suo travaglio interiore.

Il film documenta progressivamente la sua discesa negli inferi della depressione più cupa.  In un susseguirsi di campi e controcampi  si alternano  lunghi e drammatici sfoghi del regista, il quale urla a se stesso, e dalla Croisette al mondo, l’urgenza di comprendere fino in fondo la vita. Di grande intensità emotiva la scena in cui Kim rivede se stesso nella sequenza finale di Primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera, in cui il protagonista,  un monaco buddista legatasi alla vita una pesante macina di pietra, la trascina su un ripido pendio portando con sé una statua del Buddha in meditazione.  Lo sguardo di Kim che guarda se stesso, si piega al pianto, le lacrime scorrono copiose sul viso che emerge da una coperta lisa: il pubblico si sente direttamente coinvolto nel suo dolore e nella sua fatica, partecipa alla scalata dell’Olimpo che finalmente è raggiunto e il monaco può vedere dall’alto la sua casa/ monastero e raccogliersi in preghiera. Il lacerante conflitto tra corpo e spirito che ha percorso tutto il suo cinema, si rivela in questo sguardo carico di tristezza che rimanda consapevolmente al ripiegarsi in un dolore intimo e universale. Da cui, poi, (ri)nascere alla vita.


di Patrizia Rappazzo
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