The Counselor – Il procuratore

A leggere i titoli di testa si è presi da un senso di immediata vertigine. Se non bastasse un’infilata di star quali Michael Fassbender, Javier Bardem, Brad Pitt, Cameron Diaz e Penélope Cruz nei ruoli dei personaggi principali e un attore sofisticato ma finissimo quale Bruno Ganz in una particina minore, a sconcertare è la combinazione tra regista e sceneggiatore: se il primo è il mitico Ridley Scott (con alle spalle una filmografia capace di intimidire chiunque), il secondo è Cormac McCarthy, lo spietato cantore dell’America più ferina e crudele che, dopo averne raccontato per decenni gli orrori quotidiani dalle parti della Frontiera in libri diventati presto di culto anche per le trasposizioni sul grande schermo, in questo The Counselor – Il procuratore esordisce come sceneggiatore firmandone lo script.

Con un biglietto da visita di questo tipo era lecito aspettarsi il capolavoro. Ma, come spesso è accaduto in altre produzioni nelle quali vi sia stata un’ammucchiata di star chiamate a raccolta da un regista dalla grande personalità ma anche in quei casi meno frequenti in cui a un celebre scrittore sia stato chiesto di travestirsi temporaneamente da sceneggiatore, col passare dei minuti le grandi aspettative si sgonfiano a poco a poco e si finisce con l’uscire dalla sala con l’amaro in bocca e la spiacevole sensazione della grande occasione mancata. Le ragioni forse sono più di una, anche se quella principale è forse legata al fatto che l’intenzione di partenza era proprio il desiderio di sfornare il capolavoro che dicesse qualcosa di definitivo sul Male che ammorba il mondo in questo inizio di millennio e lo facesse affidando un messaggio di altissimo spessore culturale a volti di star hollywoodiane di enorme visibilità.

La storia è infatti una vicenda esemplare di un uomo che, inseguendo sogni di arricchimento facile da realizzare in tempi lampo, decide di invischiarsi in un mondo – quello del commercio della droga su scala internazionale – di cui non sa nulla, finendo così col firmare la propria condanna a morte nel momento stesso in cui si mette in testa di entrare in quell’universo di delinquenza ferina senza averne né compreso le regole né valutato le potenziali conseguenze legate alla propria fisionomia di outsider privo dei fondamenti e della cattiveria di base per stare a galla in acque troppo agitate per chiunque.

Protagonista della storia è un avvocato senza scrupoli che ha il volto di Michael Fassbender e che per tutto il film non viene mai nominato se non col titolo professionale di “procuratore”: ricco quanto basta per andare in giro su un’invidiabile Bentley decapottabile ma non quanto servirebbe per poter regalare all’amata fidanzata Laura (una Penelope Cruz negli insoliti panni della ragazza assennata che cerca di farlo a tratti ragionare) un diamante grande come una nocciola visto ad Amsterdam e fare la bella vita senza faticare troppo con pendagli da forca da estrarre di galera, il procuratore decide di comprare dal cartello del narcotraffico messicano una grossa partita di droga.

L’idea sarebbe quella di rivenderla sul mercato per poi aprire un locale con l’ambiguo Reiner, uno spiritato viveur gestore a sua volta di night club che ha la faccia di Javier Bardem, capace ancora una volta di stupire tutti presentandosi con capelli sparati in testa e un look a metà tra il Tony Manero di John Travolta a fine anni ‘70 e certi good fellas della mafia italoamericana dei giorni nostri. È proprio Reiner a mettere in contatto il procuratore con un altro personaggio non meno ambiguo e surreale nella sua unicità: si tratta del mediatore Westray, ovvero colui che deve fare da tramite tra venditori (gli uomini del cartello) e il compratore stesso, e che fa il suo lavoro in maniera alquanto originale perché sembra un filosofo travestito da cowboy in libera uscita il sabato sera alla fine di un rodeo di successo.

Se non bastassero i tre maschi a rendere a dir poco originale il panorama antropologico di questa fiaba esemplare con risvolti vagamente didattici e non poca ambizione di rappresentazione globale del mondo in cui viviamo, a dare manforte vengono poi le figure femminili. Tanto assennata ma sensualissima (è lei la protagonista del prologo tutto sospiri, mugolii e sudore sotto le lenzuola insieme al fidanzato) la pupa del protagonista, quanto è oltraggiosamente borderline e folle la compagna di Reiner. Ovvero una stralunata Cameron Diaz nei panni di una blond lady così marcia ed eccessiva dentro da sembrare un riassunto del Male assoluto in versione femminile (con al suo attivo una scena di magistrale esagerazione dei sensi destinata a entrare di diritto negli annali della storia del cinema là dove Reiner racconta al protagonista di quanto una notte la sua folle metà lo avesse raggelato facendo sesso – sì avete capito bene – con il parabrezza della propria Ferrari gialla).

Come in ogni storia in cui un essere umano desidera qualcosa che non è alla sua portata e alla fine crolla vittima della sua stessa ambizione smodata, anche in quella raccontata nella sceneggiatura di McCarthy è una vicenda esemplare di delitto (il desiderare il denaro altrui) e castigo (la brutta fine come sentenza inappellabile del Tribunale della Vita). Ma siccome a scriverla è stato uno scrittore che dagli inizi degli anni ’70 non ha fatto altro che affondare il suo feroce bisturi letterario nella carne molle dell’America più dispari raccontandone l’inarrestabile declino attraverso collezioni di folli deliranti che saltabeccano sui sentieri della Frontiera occidentale muovendosi tra incesti, mutilazioni, infanticidi, necrofilia e orrori vari assortiti, non deve stupire che questa vicenda esemplare di ascesa e caduta dostoijevskiane pulluli di scene di violenza barbara che mettono a dura prova la capacità di sopportazione visiva di qualsiasi spettatore non abituato alle efferatezze dei libri di McCarthy.

Difficile restare indifferenti di fronte alla decapitazione (per altro originalissima se ci si consente l’espressione) di un motociclista lanciato a 330 km all’ora tra la statunitense El Paso e la messicana Ciudad Juarez, o la morte orribile cui va incontro il mediatore filosofo interpretato da Brad Pitt che, nel pieno centro della City londinese, si vede recidere l’aorta da un’infernale versione tecnologica della garrota usata dai boia franchisti in Spagna, ovvero un motorino con un cavo di acciaio che, una volta legato al collo di una persona e fatto partire con un meccanismo a tempo, riavvolge il cavo stesso tagliando tutto quello che trova sulla sua strada.

Ma in questo caso non è soltanto la visione di Cormac McCarthy a influenzare la storia che ci viene raccontata. Una delle componenti essenziali dello script è infatti la volontà di attirare l’attenzione dello spettatore anche su qualcosa che non ha nulla di esemplare ma che va localizzato in una precisa parte di mondo. Ovvero l’imperare onnipotente dei cosiddetti carteles messicani del narcotraffico (dai nomi poco raccomandabili di Los Zetas, Cartel del Golfo, Familia Michoacana, Federico de Sinaloa, Cartel de Tijan e via dicendo), eredi a partire dai primi anni ’90 dello scettro mondiale del narcopotere ereditato dagli antesignani colombiani, da allora scalzati dal trono.

Una sporca guerra tra piccoli signorotti di feudi criminali che, iniziata a metà degli anni ’90 e aggravata dall’intervento a gamba tesa dal neoletto presidente Felipe Calderón che a partire dal 2006 si mise in testa di normalizzare il paese accettando il guanto della sfida, nell’arco di meno di quattro anni ha fatto registrare cifre da incubo a occhi aperti: ottantamila morti (di cui almeno trecento per decapitazione) e trentamila dispersi, più di duemila poliziotti rimasti vittime sul campo e settanta giornalisti barbaramente assassinati nel vano tentativo di sensibilizzare un’opinione pubblica già troppo terrorizzata per anche solo dar retta all’ultima delle cassandre da macello.

Ma questo era uno dei molti obiettivi che la sceneggiatura di McCarthy di certo si riprometteva di centrare. E non a caso il film si svolge tutto in quell’anticamera sudaticcia dell’inferno in terra che è l’interminabile striscia di dolore che separa Messico e Sati Uniti lungo la frontiera più trafficata e violenta del pianeta. Ma non certo l’unico. Soprattutto se si considera che il tema centrale del film è quello della rappresentazione ontologica del Male come componente ineludibile della vita umana a tutti i livelli. Quindi scollato dalla rappresentazione dell’hic et nunc di un determinato aspetto della realtà contemporanea.

Scott, che negli ultimi dieci anni ha alternato qualche buona prova a momenti di appannamento creativo (come dimostra l’irrisolto Prometheus di due anni or sono), forse abbacinato dai bagliori letterari della sceneggiatura di McCarthy se n’è lasciato affascinare più del previsto, arrivando a coinvolgere un mucchio selvaggio di superstar internazionali e credendo in un progetto che alla fine si è rivelato molto meno convincente di quanto potesse sembrare al momento degli entusiasmi iniziali Col risultato che la compresenza di troppi galli nel pollaio di El Paso porta ciascuna delle star a cercare di strafare trasformando ogni scena in cui è coinvolta in un momento memorabile di cinema. Il che però non accade quasi mai. E in questo non aiuta di certo l’abbondanza di dialoghi filosofeggianti di cui la sceneggiatura è infarcita. Così che i duetti si convertono troppo spesso in dimostrazioni un po’ stucchevoli di muscoli narrativi che fanno bene alla letteratura ma nocciono al cinema.

Roy Betty, l’indimenticabile replicante biondo di Blade Runner, vedeva spegnersi la sua carica vitale dicendo che tutte le mirabolanti esperienze vissute nella sua breve ma folgorante esistenza erano destinate a sparire in un attimo come lacrime nella pioggia. Lo stesso accadrà molto probabilmente al film di Ridley Scott e Cormac McCarthy: concepito per raccontare con forzata originalità la parabola esemplare di un uomo qualunque nell’eccezionalità della sua deviazione dalla norma di sempre, The Counselor – Il procuratore durerà nella memoria del pubblico e degli amanti del cinema di Scott quanto le avventure di Roy Betty vicino alle porte di Tannhäuser.

Trama

Inseguendo il sogno dell’arricchimento facile, un procuratore senza precedenti esperienze nel settore decide di comprare un’ingente quantità di droga per realizzare un guadagno che crede assicurato. Fidandosi di una serie di persone sbagliate (un ambiguo intermediario col cartello del narcotraffico e un imprenditore inaffidabile deciso a diventare suo socio in affari), finisce però vittima della sua folle idea.


di Redazione
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