Nebraska

Alexander Payne racconta storie vere. Sono storie semplici, che a volte tornano sugli stessi luoghi familiari,  parlano di persone anziane e disilluse, di sogni ubriachi, di quella incessante e tipicamente americana voglia di partire, di ricominciare, di ritrovare un senso, anche se ormai resta poco da giocare, giusto il tempo di un’ultima sfida (con se stessi prima di tutto) o di un’ultima consapevole illusione.  Con Nebraska, presentato in concorso a Cannes 2013 (e massacrato in modo perfino sospetto da parte della critica più engagé come Liberation) il regista torna poi “on the road again” e sui luoghi natìi, Omaha, Nebraska, oltre dieci anni dopo un film a nostro avviso da rivalutare come A proposito di Schmidt (2002).

Quelle che sarebbero storie comuni, universali forse, se ambientate nel cuore piatto e profondo degli States,  diventano delle “straight stories”: non solo vere, ma anche normali, giuste, coerenti, o semplicemente diritte – straight in una parola – come diritte e interminabili sono spesso le strade americane. Così, 15 anni dopo un grande film come The Straight Story di David Lynch (“Una storia vera”, 1999, ma proprio vera come un cognome o una vicenda realmente accaduta, come suggerisce l’articolo determinativo dell’originale), anche Payne – che pure non ha certo la genialità prolifica e imprevedibile di un Lynch e ha alle spalle una scarna quanto eclettica  filmografia-  ci regala un film che a nostro avviso resterà nella memoria.

Anche Nebraska è, d’altra parte, un altro viaggio di riparazione, questa volta non tra fratelli, ma tra un figlio e un padre (ma sullo sfondo ci sono, ingombranti presenze, una madre e un altro fratello). Un viaggio che non se non può aspirare a battere in lentezza il primo,  è pure pieno di soste e imprevisti e zigzag. Sempre sperando di “non arrivare tardi”, come diceva l protagonista di Lynch, e che alla fine ci attenda ancora un premio. Per il figlio David, il figlio da sempre meno amato, forse perché perdente rispetto al fratello di successo, il premio è conoscere l’anziano padre Woody Grant e, soprattutto, farsi riconoscere da lui. Per questo accetta di accompagnarlo in auto dal Montana, dove vivono, sino al Nebraska, per ritirare la  vincita di una lotteria di un milione di dollari.  E se dapprima cercherà di riportare il genitore coi piedi per terra rispetto alla “vincita”, finirà poi per assecondarlo sino alle estreme conseguenze, in un gesto di incondizionato amore ed anche  di ambivalente complicità maschile con quel padre vessato deriso e umiliato, a torto o a ragione che sia, dalla moglie e dalla vita.

Payne  omaggia la passione del sogno (americano), ma non può fare a meno, lungo il  viaggio, di mostrarci quello che già sappiamo, e da tante fonti diverse. L’America non è mai stata e oggi è meno che mai un paese per vecchi. Ai bordi delle strade della  sua sterminata  provincia, nei suoi motel e distributori di benzina e nei villaggi, si incontrano sempre tante persone, spesso un po’ nuts, o solo strambe (e a volte tornano, di solito non per caso, qua ad esempio rivediamo proprio i due gemelli che nel film di Lynch facevano i meccanici e anche qua sono ossessionati dalla velocità). Ma siamo comunque agli antipodi  dell’universo irrimediabilmente patologico di un altro autore, pure a suo modo assai geniale, come Todd Solondz. Il mondo di Payne è un mondo di vecchi ormai meschini e incattiviti, oppure anestetizzati dalla catatonia televisiva, che aspettano solo di potersi vendicare con chi è andato via e ora osa magari e, almeno all’apparenza, da ricco, da vincente. Ma tutto -a partire dal rapporto padre e figlio- è avvolto da un velo di tenerezza, quel velo grigio e lattiginoso in cui scolora il bellissimo bianco e nero della fotografia di Phedon Papamichael. Con Nebraska Payne compone una elegia autunnale, malinconica e nostalgica, che già avverte il “winter’s bone” della morte e della irrimediabile sconfitta. Davvero all’opposto del percorso – del resto dichiaratamente fiabesco – della storia vera lynchiana e della sua energia solare e vitalistica, satura di colore. Ma anche lontano dal finale di speranza e un tantino consolatorio del suo About Schmidt. Nebraska mostra il tradimento che la vita ci riserva, ben più grande di quello pure doloroso subìto dalle persone amate,  ma anche l’abbandono inferto a nostra volta a loro e ai nostri descendants (il titolo originale del suo sottovalutato film del 2011, più banalmente Paradiso amaro nella versione italiana). Lontani da finali in rosa,  sappiamo che il figlio ritrovato sarà il vero e ultimo grande premio di Woody.

A questo racconto amaro, eppure per lunghi tratti anche beffardamente ironico, o addirittura comico, prestano maschere perfette il Bruce Dern di Woody (già meritata Palma d’oro a Cannes), ma anche il David di Will Forte (qui alla sua prima e matura prova da protagonista) ma anche la sanguigna mamma Kate che è June Squibb. Ma tutto il cast, sino all’ultima comparsa è credibile e impeccabile, degno di un Oscar collettivo (il film in realtà ha raccolto sei nomination all’Oscar per le categorie principali). In questo film che è un progetto coltivato da Payne da diversi anni, certamente in parte anche autobiografico, il regista per la prima volta, e con paradosso solo apparente, non figura tra i partecipanti alla sceneggiatura. Ma, c’è da immaginare che stesse assai vicino, sideways, a chi dai credits risulta l’autore dello script (il poco noto Bob Nelson che qua rimpiazza il ben più fidato Jim Taylor autore di Sideways e About Schimdt).

 

TRAMA

Woody Grant è anziano, ha  qualche debito ma ha la certezza di aver vinto un milione di dollari alla lotteria. Ostinato a ritirare la vincita in un ufficio del Nebraska, Woody si avvia a piedi dalle strade del Montana. Fermato dalla polizia, viene ‘recuperato’ da David, figlio minore occupato in un negozio di elettrodomestici. Sensibile al desiderio paterno e dopo aver cercato senza successo di dissuaderlo, decide di accompagnarlo a Lincoln. Contro il parere della madre e del fratello Ross, David intraprende il viaggio col padre, assecondando i suoi capricci e tuffandosi nel suo passato.


di Sergio Di Giorgi
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