Life Is Not a Competition, But I’m Winning

La recensione di Life Is Not a Competition, But I'm Winning, di Julia Fuhr Mann, a cura di Marco Catenacci.

Il senso dell’operazione che Julia Fuhr Mann porterà avanti con coerenza innegabile è intuibile fin dalle primissime immagini: le linee della pista di atletica dello stadio di Atene su cui si apre il film, da simbolo della competizione olimpica, diventano infatti lo schema di un mondo che procede per moto inerziale su rigidi binari prestabiliti e in cui tutto ciò che è altro viene sistematicamente escluso, posto al di fuori delle corsie. E quindi corpi complessi e non ideali(zzati), corpi velatamente o orgogliosamente queer, ma anche corpi femminili, verso i quali è stato lo stesso Pierre De Coubertin, il fondatore delle Olimpiadi, ad aver mostrato fin da subito una palese avversione nei confronti della possibilità di gareggiare.

È proprio su questi corpi, esclusi dalla grande narrazione sportiva, che si concentra Life Is Not a Competition, But I’m Winning, che ha peraltro l’intelligenza di schivare una rigida classificazione di genere perfino da un punto di visto linguistico. In esso infatti, convivono l’etica del documentario e la forza politica della fantascienza, un connubio che osa trasfigurare luoghi e simboli monumentali per mostrare le crepe di un mondo conservatore arrivato ormai al capolinea. Il viaggio nel tempo come urgenza di ricordare imprese che sono state sistematicamente rimosse o storie che non sono state narrate; alla ricerca delle immagini e delle celebrazioni perdute, per ricostruire il passato e aprirsi al futuro. Con la consapevolezza del fatto che esistere nelle immagini significa esistere nella Storia.


di Marco Catenacci
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