Sei fratelli

La recensione di Sei fratelli, di Simone Godano, a cura di Gianlorenzo Franzì.

La Groenlandia di Matteo Rovere e Sidney Sibilia è ormai più di una promessa o di una scheggia impazzita nel panorama produttivo del nostro cinema.

Il suo scopo, fin dall’inizio, era quello di spingere più in avanti e quindi alla fine aprire l’immaginario cinematografico italiano a nuovi orizzonti che quelli ormai tronfi e imborghesiti che abitano buona parte della produzione mainstream: un piano ben strutturato che è iniziato pian piano con la follia anarchica dei The Pills, è esploso con Smetto Quando Voglio, ha continuato a crescere di complessità con Il Primo Re.

Per questo, all’inizio Sei Fratelli sembra una sorta di contraddizione interna: la storia è quella classica di tanti film, una famiglia disfunzionale alle prese con il senso di perdita e di appartenenza. Di certo, il film è coerente nel percorso del suo regista Simone Godano, che con garbo e intelligenza ha sempre scritto e diretto commedie che rifiutavano i luoghi comuni pur incuneandosi nella quotidianità, facendolo però con uno sguardo critico e laterale, a tratti grottesco.

Sei Fratelli ripropone allora quello spaccato di vita vissuta nel quale si intravede una crepa che pian piano si allarga sempre di più, portando alla dissoluzione e quindi poi alla rinascita. Godano gioca con i riferimenti cinefili per non essere mai convenzionale con il suo sguardo: è per questo che inevitabilmente allora il suo film entra nelle zone dei vari Scola e Risi, compiendo uno zigzag creativo che entra ed esce dal già visto.

Ma sul lungo percorso, il film fatica ad entrare nel cuore del dramma, forse proprio perché rifiuta di assumere un tono definitivamente oscuro e tragico fermandosi sulla soglia della malinconia: ed è come se tutto il racconto tergiversasse in continuazione, alla ricerca di un modello a cui rifarsi senza voler avere debiti narrativi troppo evidenti. E allora, tra improvvise illuminazioni, suggestioni vincenti e momenti di ristagno, alla fine la bravura degli interpreti serve soprattutto a coprire le falle di qualcosa che poteva essere ancora meglio.


di Gianlorenzo Franzì
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