Immagini e icone dell’11 settembre

Michele Gottardi riflette sul rapporto tra il cinema e l'attentato più famoso del nuovo millennio.

Icone. Qual è l’immagine dell’11 settembre che più è rimasta impressa nella nostra memoria? Forse non ce n’è solo una, scolpita da innumerevoli diffusioni di breaking-news, media, vhs e dvd di film doc e altrettanto infinite serie, oltre a edizioni più o meno didattiche. A livello iconico, infatti, sono almeno due, lo schianto dei due aerei sulle Torri gemelle e l’enorme nuvola di fumo e polvere che invade Manhattan dopo il crollo del WTC. In uno studio compiuto già una dozzina d’anni or sono Clément Chéroux (Diplopia. L’immagine fotografica nell’era dei media globalizzati: saggio sull’11 settembre 2001, Torino, Einaudi 2010) identificava in queste due immagini i simboli degli attentati. Chéroux ha censito media e quotidiani americani e francesi di quelle settimane: e se nelle edizioni straordinarie dell’11 prevale la torre in fiamme (il 41% dele prime pagine di quei giorni), il giorno dopo è già il panico della gente in fuga davanti all’imponente nuvola (il 17% complessivo), issata a un’icona che simboleggia il pericolo, anche politico, dell’attacco. Un’uniformità delle prime pagine e delle copertine dei tg-news che non ha precedenti per ripetitività ed estensione, alcuni anche coinvolgendo la quarta di copertina in un’unica immagine panoramica. Perché la forza dell’aereo che penetra il grattacielo è legata all’immagine in movimento e perde valore sulla carta stampata, motivo per cui oltre metà dei quotidiani la abbandona da subito, optando per un’immagine paradossalmente più forte e più nuova, a differenza dei telegiornali che continueranno a mandarla in loop per più di ventiquattr’ore: la Cnn la riproporrà in un servizio riassuntivo nell’anniversario del 2011 (www.youtube.com/watch?v=D60QnpI_xH4), così come altri quotidiani anche italiani (www.youtube.com/watch?v=egwQcscJ5_Y). La nuvola così diventa un simbolo: «essa annega la città sotto la polvere e la cenere, diluisce le forme architettoniche, quando non ostruisce completamente la vista. Funziona come uno schermo in grado di dissimulare le conseguenze immediate degli attentati» (Ibid. pp. 28-29). Per cui, imprecisa per sua natura, la foto della nuvola più che informare, evoca, assume il volto del demonio, magari quello di Bin Laden. Non che non vi fossero altre immagini choc da usare, ma qui è scattata un’autocensura che ha impedito di mostrare corpi martoriati e smembrati, ben prima che giungesse un perentorio invito in tal senso da parte del sindaco di New York. Vi è stato inoltre un ulteriore tema, sin dalle primissime ore: l’accostamento all’attacco a Pearl Harbor, il 7 dicembre 1941, sia nei modi drammatici che nelle conseguenze e, soprattutto, nei titoli, tra cui il più presente è senza dubbio Infamia, assieme a “seconda infamia”, “nuova Pearl Harbor”. A questo si unì qualche giorno dopo un’altra immagine iconica trasfigurata nel presente, quella dei marines che issano la bandiera a Iwo Jima, il 23 febbraio 1945, citata abbondantemente quanto inconsciamente dall’azione dei tre vigili del fuoco, che innalzano Stars & Stripes a Ground Zero una settimana dopo il massacro.

Fiction, doc e serie. Nella dozzina di film che, soprattutto nel primo decennio e sino ad oggi, ci ha ricordato l’11 settembre alcuni sono celeberrimi e ormai celebrati, a partire da La 25° ora di Spike Lee che per primo (2003) mostra la desolazione di Ground Zero che fa da sfondo alla desertificazione esistenziale del protagonista Edward Norton, spacciatore condannato al carcere che vive un ultimo giorno di libertà prima di consegnarsi. Buon ultimo, ma solo in ordine di tempo, Worth (2021), con l’avvocato Michael Keaton che si batte per far ottenere un risarcimento alle famiglie delle vittime del WCT. Il primo in realtà fu 11’09″01 – 11 settembre 2001, uscito a un anno di distanza, nel 2002, ma è un film collettivo, in cui undici registi diversi (Youssef Chahine, Amos Gitaï, Alejandro González Iñárritu, Shohei Imamura, Claude Lelouch, Ken Loach, Samira Makhmalbaf, Mira Nair, Idrissa Ouedraogo, Sean Penn e Danis Tanovic), di ogni parte del mondo scelgono di raccontare la loro idea dell’attentato o di evocare altri massacri, da Srebenica al golpe in Cile. Due anni dopo (2004), Michael Moore porta in sala il documentario Fahrenheit 9/11, in cui evidenzia il legame tra la famiglia dell’allora presidente George W. Bush e il terrorista Osama Bin Laden, leggendo l’attentato come conseguenza di un’alleanza mancata. Diversi i documentari sul tema, alcuni molto classici, per lo più di montaggio, come quello del National Geographic, 11 settembre: vent’anni dopo (9/11: One Day in America, 2021), in 6 parti, che si propone di raccontare «la storia completa attraverso gli occhi di coloro che vi hanno assistito, sofferto e sopravvissuto». O l’altro, altrettanto recente (2021), Turning point: l’11 settembre e la guerra al terrore, cinque puntate targate Netflix di una «rigorosa serie che documenta gli attacchi terroristici dell’11 settembre, dalla nascita di Al-Qaida negli anni ’80 alla risposta USA sul suolo americano e all’estero». Tornando alla fiction, mentre 11 settembre: senza scampo (Martin Guigui, 2017) continua a rievocare il dramma di chi rimase intrappolato nelle scale e negli ascensori delle torri, fino al crollo totale, World Trade Center di Oliver Stone e United 93 di Paul Greengrass mostrano invece la strage vista dagli occhi di protagonisti diversi: entrambi usciti nel 2006, il primo ci fa rivivere la storia dei due agenti della polizia portuale di New York, che l’11 settembre 2001 entrarono per primi nel World Trade Center, mentre il secondo racconta l’eroismo dei 40 passeggeri che, pur non salvandosi, riuscirono a evitare che l’aereo precipitasse sulla Casa Bianca o sul Pentagono. Già in Molto forte, incredibilmente vicino (2012) gli attentati sono il passato e il presente è la conseguenza di quei fatti: qui infatti Oskar Schell, un bambino di 11 anni che ha perso il papà nelle Torri Gemelle, trova, tra le sue cose, una chiave misteriosa e un numero: convinto che potrebbe svelargli l’ultimo lascito del padre, Oskar vaga per la Grande Mela, incontrando un gran numero di persone, tutte sopravvissute fisicamente o emotivamente all’atto terroristico. E se Remember me (2010), love story di Robert Pattinson alla vigilia dell’11 settembre, non può evitare la tragedia personale dei protagonisti, Reign Over Me di Mike Binder, uscito ancora troppo presto (2007), non può non offrire una speranza ai sopravvissuti. Spostati sul piano delle conseguenze militari dell’11 settembre sono, invece, Zero dark Thirthy, nome in codice dell’ora in cui scattò l’operazione che portò all’uccisione di Osam bin Laden, di Kathryn Bigelow; The Report (2011), film di denuncia di Scott Z. Burns, sull’uso della tortura da parte della CIA in seguito agli attentati del 2001; 12 Soldiers di Nicolai Fuglsig, tratto da Horse Soldiers del giornalista Doug Stanton, sulla vita dell’agente CIA Mark Nutsch, spedito in Afghanistan dopo l’11 settembre. Più in generale, se nel primo decennio prevale il racconto del giorno terribile e lo sguardo spazia anche sulle conseguenze dirette e indirette degli attentati nel tessuto umano e sociale dei familiari o amici delle vittime, nel secondo decennio, salvo rare eccezioni, prevale maggiormente l’aspetto militare-punitivo, le imprese strategiche della vendetta, le conseguenze giuridiche più di quelle affettive. Molte anche le serie che vi si dedicano poco o tanto, rispecchiando di fatto le caratteristiche della fiction, a cominciare da Rescue me (Salvami), che Fox manda in onda tra il 2004 e il 2011, dedicandola alle vite dei pompieri di NYC, celebrandoli e rendendo omaggio alle centinaia di vittime del corpo, mentre la più recente The Looming Tower (La torre incombente),che Hulu ha trasmesso nel 2018, ricostruisce gli avvenimenti precedenti l’11 settembre in uno scenario, reale, di rivalità paranoiche tra Fbi e Cia, che hanno portato alla totale incapacità di prevedere gli attentati. Rientra pienamente negli esiti destabilizzanti dell’11 settembre Homeland (2011-2020), che dà corpo alle paure e alle ansie di nuove minacce terroristiche, in un mondo di spie e di agenti segreti stile guerra fredda, tra info reali, false piste e fake news. Lo stesso scenario di Designated Survivor, con Kiefer Sutherland (2016-2019). Da notare che tutte queste serie terminano prima del 2021, come se canali, streaming e Hollywood abbiano deciso che, dopo vent’anni, l’attenzione mediatica verso l’11 settembre sia venuta meno.

Eroi e antieroi. C’è un’altra conseguenza meno marcata e più psicologica, che il cinema registra sullo schermo dei film usciti immediatamente dopo il 2001. Si poteva immaginare che l’America avesse avuto necessità di schermi popolati da eroi H24. Così non è stato e l’epoca dei Giustizieri della Notte (1974-1994), dei Rambo (1982-1988) e dei Rocky (1976-1985-2005) è tramontata definitivamente,  forse con un’unica eccezione come Hell di Ringo Lam (The Savage, 2003), un film vecchio stile guerra fredda, in cui Van Damme sceglie la violenza come male necessario pe sconfiggere la brutalità delle carceri russe. Altra variante Man of fire (Tony Scott, 2004), intriso di un razzismo strisciante anti-latinos, in cui il Messico è il regno del Male, e il man in black per eccellenza del cinema americano, Denzel Washington, incarna un ex agente Cia dal passato democratico che sceglie la vendetta personale per sterminare gli assassini di una sua giovane protetta, in un’operazione dal timbro ultra-conservatore. Non sono quindi le istituzioni, divise al loro interno o corrotte, ad assicurare un futuro sereno agli abitanti degli States, ma i singoli, eroi per caso o per necessità, come in Collateral (Michael Mann, 2004). Qui la contrapposizione Tom Cruise/Jamie Foxx esemplifica bene il meccanismo collaterale, dualistico, della libertà e della giustizia americana, specchio di un intero paese, un po’ come in Terminal (Steven Spielberg, 2004). Nella maggior parte dei film, sia nelle commedie che negli action-movie, i cattivi sono quasi sempre wasp e il mondo è salvato da etnie minoritarie, se non numeriche, di certo politiche. Se la favola di Spielberg connota, come di consueto, di un ottimismo agrodolce il contesto (aereoportuale) del film, la Los Angeles di Mann prelude a un itinerario infernale. Perché sono comunque infelici gli eroi dell’America post 2001, come dimostrano i lunghi dialoghi tra il killer e il suo autista: la felicità resta per entrambi un’impossibile tranquillità, una meta irraggiungibile superando antichi, e comuni, traumi infantili. Con la differenza che il buon taxista Max non combatte solo la ferocia del perfido sicario Vincent, ma quella di tanti cattivi come lui; nel contempo, non diventa il giustiziere della notte di cui sopra, non si sostituisce alla legge. La sua dimensione di eroe per caso lo aiuta a liberarsi di sogni irrisolti, di miti irrealizzabili e a tornare uomo, per sempre. Il microcosmo dell’aeroporto di Terminal, invece, è lo specchio del macrocosmo a stelle e strisce, spesso salvato dalle minoranze che vanno a morire in Iraq, così come morivano in Vietnam, in Corea, in Normandia o nel resto d’Europa, nelle guerre precedenti. E il bianco Dixon (Stanley Tucci) mostra tutta l’ottusa arroganza del potere wasp, mentre sono indiani, pakistani, ispanici, neri, mulatti e indios a permettere a Novorsky-Hanks di liberarsi dal terminal per compiere la sua missione umanitaria e tornare a casa. Ma l’esempio più evidente del crollo delle certezze del mito americano è dato dal più umano dei supereroi Marvel, l’Uomo Ragno. In Spider-Man 2 (Sam Raimi, 2004) Peter Parker diventa l’immagine stessa degli Usa, dotati di “un grande potere”, ma di conseguenza anche “di una grande responsabilità”, connessa col ruolo degli Stati Uniti nel mondo. Per questo Spider Man lotta, si impegna, soffre, si sacrifica, come uno di noi. E giunto stremato alla fine, salvata ancora una volta l’umanità, lui stesso vivo per miracolo, viene raccolto e salvato a sua volta, protetto e deposto come in una Pietà rinascimentale, confortato con un «abbiamo bisogno di eroi come te», di quelli che non pensano che il Male esista per davvero in qualche luogo del mondo inferiore.

Oggi a distanza di vent’anni da questi film, mentre l’America è tornata spaccona e si illude di essere anche vincente, sperando di essere pur sempre La terra dell’abbondanza (Wim Wenders, 2004): così continua a dilaniarsi tra suprematisti e democratici, tra razzisti e progressisti. Gli eroi sono stanchi, ci ricorda Clint Eastwood, il più conservatore di tutti, ma insieme il cantore di uno spaesamento che dà luogo a quella sublime poetica del cinema americano tra il nulla e l’addio.


di Michele Gottardi
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