Second Chance
Susanne Bier torna nella sua Danimarca dall’ultima trasferta in America e recupera quasi intatto, con la complicità del suo soggettista e cosceneggiatore di rifermento, Anders Thomas Jensen, il suo mondo poetico, politico e polemico. Con Second Chance, la registra ritrova d’incanto paesaggi lacustri, boschi di betulle, case isolate (affidate a buoni designer per la distribuzione degli spazi interni), chiese di campagna, cimiteri verdi, reperti industriali, tranquilli borghesi, borghesi inquieti, tossici e sbandati. A tutti è data una seconda chance. Che per la giovane madre, finalmente appagata nel suo desiderio di maternità, è l’arrivo di un nuovo neonato al posto di quello ucciso in preda a una depressione post partum; per il marito poliziotto è la possibilità, nella stessa notte della morte del figlio, di riempire la culla vuota rubando il neonato a una coppia tossica cui lasciare il corpicino del suo bimbo; per i due crudelmente raggirati l’accusa di omicidio. Bier non si fa mancare niente, neppure la restituzione a tempo di record del neonato alla vera madre.
La regista ha auto un passato Dogma e un film Dogma (Open Hearts, 2002), ma si è quasi del tutto affrancata da quella scuola. Non eccede neppure più con i primissimi piani e i dettagli che infestavano la sua prima esperienza hollywodiana (Noi due sconosciuti, 2007). Siamo, in Second Chance in pieno e dichiarato melò. Il film è teso, allarmante nella progressione degli eventi, ben fotografato e recitato. Nell’organizzare in soli 102’ tutta questa incandescente materia Bier e Jensen tentano di esplorare le fondamenta morali della società contemporanea e disseminano, tra i colpi di scena, rovelli morali e conflitti etici con la scoperta intenzione di interrogare lo spettatore chiedendogli con chi schierarsi: operazione difficile, e francamente noiosa, perché qui i personaggi più che reali sono strumentali all’argomentazione. Siamo lontani dall’equilibrio del ben più controllato In un mondo migliore (2010). Qui le domande che nel sottofondo aleggiano – esiste la madre cattiva? chi siamo noi per crederci migliori? – si rivelano gratuite. La regista ci ammonisce, ci ammaestra, mai ci convince: è temerario credere che la tua vita sia quella giusta, nessuno è quello che sembra, e via dicendo. Inevitabile la conclusione: non giudicare la vita altrui.
L’utilizzo della chiave poliziesca per scardinare comportamenti ben sedimentati è il tratto distintivo del film, capace forse di intrigare lo spettatore. Bier affonda il suo melò nel genere noir e trae da un rapimento, da un’inchiesta, dal coinvolgimento di giudici e assistenti sociali la spinta per l’elaborazione psicologica dei personaggi appartenenti a due nuclei familiari antitetici. Purtroppo tutto questo resta in superficie, e qua e là offre spunti all’ironia delle spettatore che non si beve l’improbabilità della vicenda e delle situazioni che la costellano. L’evoluzione interiore, la serenità e la disperazione dei personaggi, alla fine, si reggono sulla gratuità di una convenzione. I limiti del film sono palesi: Bier usa la realtà, selezionata e adattata a suo piacimento, per avvalorare la propria tesi. L’utilizzo della chiave poliziesca per demolire certezze morali, peraltro, non è una novità: Lang ci ha costruito una carriera. In ognuno di noi c’è un lato oscuro, pronto ad emergere di fronte ad accadimenti imprevisti. Anzi, per dirla con lo stesso Lang, “Siamo tutti figli di Caino!”.
Trama
Un poliziotto danese, temendo il suicidio della moglie, decide di sostituire nottetempo il figlioletto morto con quello di una coppia di tossici. Lo rapisce e al suo posto lascia il corpicino del suo bimbo. Ma la moglie non accetta l’inganno e si getta da un ponte. Il tossico, che non sospetta l’intrigo, sotterra di nascosto il neonato, sospettando che ad ucciderlo sia stata la sua compagna, che però non riconosce nel morto il suo bimbo. I due vengono indagati per omcidio. Il poliziotto, rimasto vedovo e con il figlio non suo, restituisce il piccolo alla vera madre. Tra i due potrebbe nascere una storia.
di Giorgio Rinaldi