Ritorno a La terra dell’abbastanza
Tornare con la mente a La terra dell'abbastanza, esordio alla regia dei gemelli Damiano e Fabio D'Innocenzo, a due anni dalla sua realizzazione permette di trovare la giusta distanza critica per affrontare un testo cinematografico ben più complesso e stratificato di quanto possa apparire a prima vista.
A distanza di due anni sono tornati a rappresentare l’Italia alla Berlinale i fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo, con la loro opera seconda Favolacce (nelle sale da metà aprile). Dopo il brillante esordio, già noto ai più, La terra dell’abbastanza (presentato nella sezione “Panorama” nel 2018), quest’anno hanno partecipato alla selezione ufficiale in concorso, in lizza per l’Orso d’oro. Non male per i due, fino a qualche tempo fa occupati come giardinieri nella Capitale.
Gemelli, classe ’88, nati il giorno della presa della Bastiglia, andati sempre d’accordo sulla passione per il disegno, la fotografia e, non ultima, la scrittura. Giovani, senza studi accademici alle spalle, ma già con contenuti ed esperienza “da vendere” tra sceneggiature accreditate e non (forgiati, principalmente, con la pratica del ghostwriting) e… Poesia (non tutti sapranno della loro suggestiva raccolta di versi sciolti Mia madre è un’arma, data alle stampe lo scorso anno). Ma la considerazione di cui godono è senza ombra di dubbio la diretta conseguenza di uno degli esordi alla regia più folgoranti del cinema italiano del Nuovo Millennio. Utilizzo consapevolmente aggettivi (spesso infarciti di retorica) come «brillante» e «folgorante», in qualità di attributi in riferimento al termine «esordio», ritenendoli quanto mai opportuni applicati al caso, nella loro accezione più “fotonica”: La terra dell’abbastanza è una pellicola preziosa, che funge da diamante in grado di propagare il fascio bianco e monocromo di un’idea (l’illuminazione, la lampadina che si accende) in uno spettro di colori, di intuizioni, di soluzioni stilistiche e interpretazioni. Alcune fra queste, senza velleità d’esaustività, saranno esposte a breve.
Quale modo migliore, dunque, per vivere l’attesa dell’uscita in sala di Favolacce (in attesa di capire se sarà rispettata, vista la situazione attuale legata al Coronavirus, N.d.R.) se non andando a rispolverare, a rimuovere quella sottile patina che comincia a depositarsi su La terra dell’abbastanza? Dopo Berlino il paragone con l’opera prima sarà con buone probabilità inevitabile o quanto meno curioso. E chissà quanta luce e quanto del fervore all’esordio l’opera seconda riuscirà a portarsi dietro e quanto, invece, sarà in grado di brillare di luce propria. Staremo a vedere.
Per quanto quello del realismo di periferia annesso alla malavita possa considerarsi un sentiero «abbastanza» battuto e calpestato nell’ultima decade, tra quelli “di genere” della cinematografia nostrana, i twins della Lupa (e non stiamo parlando di Romolo e Remo) tuttavia riuscirono già un paio d’anni fa a dire la loro e a proporsi (o imporsi?), nel panorama esordiente, con un film sorprendentemente “maturo”, dopo un processo durato circa sei anni tra scrittura, ricerca di una produzione ed esecuzione.
Sono cresciuti a «pane e Gomorra», figli dunque di tanta enfasi derivata da prodotti audiovisivi sul tema. Rimanendo sul pianeta Garrone è curioso almeno citare Dogman: film che ha fatto incetta di premi e plausi della critica, uscito nelle sale appena qualche settimana prima de La terra dell’abbastanza e per il quale i fratelli D’Innocenzo hanno collaborato a soggetto e sceneggiatura. Il legame di parentela che più salta all’occhio è riconducibile alla scenografia, all’ambientazione: un’indefinita ed estrema periferia di Roma. Ma, forse, dovremmo cercare altrove legami più profondi. Lungi dalle raffigurazioni del crimine sollimiane in ACAB e Suburra che, dominate da “forze centripete”, (con)tengono l’azione nell’abbraccio del Gran Raccordo Anulare e che potremmo forzatamente definire «intra-GRA», la pellicola che meglio di altre può instaurare legami di parentela e parallelismi con l’esordio dei D’Innocenzo è «extra-GRA», ambientata ad Ostia: Non essere cattivo di Claudio Caligari. Il tipo di crimine qui rappresentato è lontano dai palazzi del potere, è più atavico e radicato in profondità, nel tessuto sub-urbano. È una delle componenti organiche dell’humus dal quale germoglia nuova vita. Ecco fiorire le figure di Vittorio (stesso nome dell’Accattone di Pasolini interpretato da Franco Citti) portato sul grande schermo da Alessandro Borghi e Cesare (nomen omen della Città Eterna, testimone d’una stratificazione storica millenaria) interpretato da Luca Marinelli.
Ragazzi tra le periferie come germogli tra le rovine. Sembra ancora di percepire intatta l’onda lunga della denuncia pasoliniana, dei suoi “ragazzi di vita”, di quell’Ettore Garofolo figlio della Magnani, in Mamma Roma. Sì, quasi sessant’anni dopo. Ed è proprio nel bianco e nero di quella pellicola che, idealmente, si racchiudono tutti i colori di questa. Come fosse una parentesi cromatica e tematica che già comprende in sé il tutto. Pasolini non può non rappresentare il modello archetipico, il punto di partenza per i D’Innocenzo. A maggior ragione dopo essere venuti allo scoperto anche in qualità di poeti, recentemente. Entrambi i soggetti prendono spunto dalla realtà che, tanto Pier Paolo tra le borgate nell’Italia del boom economico quanto Fabio e Damiano a Tor Bella Monaca in tempi a noi più recenti hanno vissuto ogni qual volta varcavano l’uscio di casa. Con la discriminante che Fabio e Damiano in quella realtà ci sono nati, con la consapevolezza che i due protagonisti del loro film sarebbero benissimo potuti essere loro.
Ciò che è certo è che il filo rosso (non si potrebbe meglio definire) che collega questi titoli a La terra dell’abbastanza è il sangue che scorre, tra cronaca e set, nella Capitale. Sangue che denuncia una realtà sporca, dolorosa, illegale, amorale tanto da rasentare il paradosso, eppure in qualche modo paradossalmente necessaria.
Mirko e Manolo (interpretati rispettivamente dall’esordiente e convincente Matteo Olivetti e dal già rodato e affermato Andrea Carpenzano) sono due ragazzi poco più che maggiorenni. Si conoscono dai tempi delle elementari e non hanno segreti, vengono presentati sin dalle prime battute come un’affiatata coppia, verace e vorace. Basti vedere come trangugiano pane e cicoria. Studiano all’alberghiero (stesso percorso di studi compiuto dai registi, guarda caso) e per guadagnare qualcosa la sera consegnano pizze. Sperano, entrambi, in una svolta che possa migliorare il loro status quo. Questa arriva partendo da una disgrazia che si tramuterà in «bucio de culo», come dirà il padre di Manolo (un Max Tortora chiuso in una claustrofobica e umoristica inettitudine). Aver casualmente investito un pentito, un “infame” ricercato dal clan dei Pantano darà loro la chance di venire assoldati, di compiere la prima discesa in quella caverna, in quel preistorico baratro in cui il male viene incubato ed elaborato per poi emergere e zampillare in superficie. I due, alle prime armi, verranno fin da subito messi alla prova e, muniti di pistola, diverranno sicari freddi e allo sbando, cani randagi ma zelanti da sguinzagliare a comando ora per un “avvertimento”, ora per un regolamento di conti. Riescono bene nel fare del male; ciò procurerà loro quei guadagni che da semplici fattorini avrebbero potuto soltanto sognare. Con questo «abbastanza» (termine indefinito, relativo, che non quantifica) potranno finalmente permettersi un certo lusso: scarpe nuove, smartphone e computer, regali costosi per le persone care, frigo pieno di spesa. Lusso che, però, non corrisponderà a benessere. Quanto verrà offerto loro sarà «abbastanza» per comprare le loro vite, per spingersi oltre il limite della sopportazione, per raggiungere le vette rarefatte e asettiche dell’indifferenza, per continuare a vivere in quella che è diventata, ora più che mai, una periferia anche morale. Ci si appiglia dove si può per rimanere “umani” e l’unico valore a cui sarà concesso loro d’aggrapparsi sarà quello, nobile, dell’amicizia. L’inevitabile conseguenza è un isolamento progressivo da tutto il resto (affetti e famiglia compresi), reso visivamente da inquadrature che si fanno sempre più stringenti sui volti e in cui lo sfondo è quasi sempre fuori fuoco. A questa costante sfocatura corrispondono, dunque, stati di straniamento e alienazione. E quindi, cosa rimane? Solo i volti, le espressioni dei protagonisti, a fornirci le chiavi di lettura. Mirko, in particolare, così fiero, sicuro, con quegl’occhi glaciali: altro non sono che una parvenza. Nel suo sguardo si cela il timore di non poter reggere a lungo la pressione, le incertezze e le titubanze pur lecite per un ragazzo della sua età. Ed arriva, prima o poi, il momento del disgelo. E quegl’occhi si sciolgono e si risolvono in un pianto che ha il sapore di un destino già scritto. Emblematica, in tal senso, la scelta del titolo per la distribuzione internazionale: Boys Cry (= I ragazzi piangono).
È possibile ravvisare una certa tensione formale (onore al merito per Paolo Carnera alla fotografia e Paolo Bonfini alla scenografia) che mira a raggiungere, con l’uso sapiente della luce in particolar modo, tra abbagli e sfocature e contrasti giorno/notte, un’atmosfera di straniamento (come abbiamo appena visto) e sospensione (che è anche sospensione di giudizio sui personaggi!). Anche questi aspetti contribuiscono a rendere visivamente una terra ancor più anonima e vaga (come, d’altronde, annunciato dal titolo). Una terra, un non-luogo in cui, entrando in un bar, è più probabile assistere ad un incontro tra due «orfani di figli», piuttosto che ad uno tra orfani di madre/padre.
Il film è pervaso di scene e intere sequenze volutamente disturbanti, immediate, crude e scippate all’edulcorazione che invitano, non senza una certa pressione emotiva sullo spettatore, a calarsi e immergersi fino al collo nel torbido liquido narrativo, nel ridondante (eppure in qualche modo lirico) turpiloquio romanesco. I personaggi spesso di spalle sono tallonati dalla macchina da presa, pedinati per poi essere ingabbiati in inquadrature ravvicinate, in primissimi piani e dettagli di notevole eloquenza. Il tutto, in conclusione, raffinatamente controbilanciato da ampie vedute, in campi lunghissimi o chirurgiche panoramiche, utili a farci esperire quell’inferno che, anche in quei casi continua ad apparirci piccolissimo, così chiuso in sé, opprimente, allucinato. Simile, a tratti, al Saturno che divora i suoi figli dipinto da Francisco Goya nel 1823. Non è un caso, questo puntuale riferimento mitologico-pittorico. Saturno (Crono, per i greci) è il titano padre di Giove (Zeus) e sta alla periferia, come lo stesso Giove sta ai fratelli D’Innocenzo. Scampati al macabro banchetto, ora possono permettersi di scagliare folgori su quel mondo che li ha generati. E lo fanno attraverso un film, un fascio di luce che colpisce un pannello bianco nel buio delle sale. Utilizzando la macchina da presa come fosse un keraunoskopeion, un’antica macchina scenica del teatro greco per simulare lampi e fulmini, usata per dare un’illusione. Che è quanto, in sostanza, fa il Cinema da sempre. Dà illusioni. Anche con quest’accezione definiamo il loro esordio «folgorante».
Giunti a questo punto, non ci resta che attendere Favolacce.
di Luigi Palma