Recensioni dalla Festa del Cinema di Roma 2022
Su CineCriticaWeb le recensioni dei film presentati alla 17ª edizione della Festa del Cinema di Roma, dal 13 al 23 ottobre 2022.
Il colibrì
Grand Public
di Francesca Archibugi
Durata: 126’. Anno: 2022. Produzione: Italia, Francia
Evento di apertura della 17ª edizione della Festa del Cinema di Roma, Il colibrì è l’adattamento al grande schermo del romanzo omonimo di Sandro Veronesi, premio Strega di due anni fa, e incentrato sulla figura di un oculista fiorentino che attraversa gli scossoni e le alterne vicenda di una vita ordinaria (lutti in serie, un matrimonio infelice, un rapporto irrisolto coi genitori, nonché una storia d’amore impossibile), scegliendo di affrontarne l’impatto devastante con l’immobilità attiva di chi impiega ogni energia nel non muoversi mai di un passo. Come appunto fa il minuscolo volatile che dà il titolo tanto al libro quanto al film.
Scritto con Francesco Piccolo e Laura Paolucci e diretto da Francesca Archibugi (che dello studio delle dinamiche familiari ha fatto un marchio di fabbrica di quasi tutto il proprio cinema), questo dramma da media borghesia in crisi di tutto è una trasposizione molto fedele del romanzo di partenza. Un approccio questo che, se da una parte farà felici i moltissimi lettori che hanno decretato il successo del libro di Veronesi e che nel film ne ritroveranno quasi tutti gli intricati sviluppi narrativi, dall’altro costituisce l’elemento di maggiore debolezza strutturale dell’intera operazione.
Le 350 pagine del libro sono, infatti, un condensato molto fitto di accadimenti inseriti in un valzer cronologico che trascina il lettore dagli anni ’70 fino a giorni nostri. Un viavai sulla linea del tempo che funziona alla perfezione sulla carta, ma che sullo schermo comporta invece effetti collaterali indesiderati quali non solo la superficialità nella sbozzatura dei personaggi (con l’ovvia esclusione del protagonista che ha la faccia di un superlativo Pierfrancesco Favino, bravo a non far sorridere chi lo senta parlare con l’accento fiorentino imparato in un laboratorio di dizione), ma anche la lunga serie di sventure che costellano l’esistenza dei vari personaggi e che non si fa a tempo ad assimilare nel loro convoluto avvilupparsi. Se non nell’ultima mezz’ora del film, là dove la sceneggiatura fa del proprio meglio per tirare le fila del tutto, cercando di far sembrare compatto quanto fino a quel punto può esser parso sfilacciato.
Forte però di un cast di livello eccelso (con – tra i numerosi volti noti del cinema nostrano – Nanni Moretti, nei panni dello psicanalista che pilota come un deus ex machina quasi tutte le difficili scelte di vita del protagonista, e un sorprendente Massimo Ceccherini, in quelli dell’amico del cuore), il film sfrutta il romanzo di Veronesi per affrontare con coraggio un tema attuale, ma dalle nostre parti ancora vagamente tabù, quale quello del fine vita assistito. E in questo merita una menzione la toccante sequenza finale, così coinvolgente dal punto di vista emotivo da far passare in secondo piano anche gli eccessi di make-up con cui i vari personaggi sono stati invecchiati ad arte, per renderli credibili in quella fase delle loro vite. [Guido Reverdito]
Lynch/Oz
Freestyle
di Alexandre O. Philippe
Durata: 108’. Anno: 2022. Produzione: Stati Uniti.
Il documentarista Alexandre O. Philippe ragiona sul cinema attraverso l’immagine. Lo aveva dimostrato nei lavori precedenti, soprattutto in 78/52, in cui ricostruiva la scena della doccia di Psycho composta, appunto, di 78 inquadrature e 52 tagli. Nell’epoca in cui si giudica sempre più un’opera per il suo argomento, c’è bisogno di uno come Philippe, uno che sposta il discorso e lo riporta alla posizione originaria, quella che merita, il cinema come costruzione dell’inquadratura. In tal senso va inteso Lynch/Oz, ancora una volta un titolo diviso da uno slash, cioè un confronto tra due nomi, solo che uno è un regista vero e l’altro un personaggio di fantasia, un mito fondativo, il mago di Oz.
«Tutti i giorni penso al Mago di Oz», dice David Lynch. La situazione è chiara: Oz per il suo cinema è una matrice, una sorgente da cui tutto discende e a cui tutto torna. Il film mette allo specchio Oz e Lynch con una divisione in capitoli, confrontando l’opus lynchiano con il film di Fleming del 1939 attraverso varie voci, come la critica Amy Nicholson e i registi John Waters, David Lowery e Karyn Kusama. L’idea è quella di perdersi nelle loro parole, che vengono accompagnate dalle immagini in montaggio alternato tratte dai film di cui parlano: sono contributi eterogenei, che vanno dallo sguardo critico puro a quello più intimo e affettuoso. Per esempio, John Waters racconta anche il suo rapporto con Lynch, culminato nella mitica foto della stretta di mano davanti al fast food Big Boy.
E poi c’è il tema del film, il “protagonista”, ovvero il legame tra il cineasta di Missoula e il capolavoro di Fleming: Oz è dentro tutti i film di Lynch, li permea nel profondo, talvolta attraverso citazioni letterali come in Cuore selvaggio, talvolta attraversi indizi occulti e sotterranei. Chi lo sapeva che le sabbie di Dune richiamano il giallo seppia del Kansas? Che la linea tratteggiata di Strade perdute è una possibile riscrittura del sentiero dorato verso la città di smeraldo? Ecco qual è in ultima istanza la potenza di Lynch/Oz, il suo valore profondo: osare percorsi, creare suggestioni, tracciare ipotesi, non le più ovvie e banali, bensì quelle inedite e meno sondate. Così facendo, confrontando Fleming e Lynch, ci ricorda che il cinema è sempre e soprattutto l’arte dell’immagine. Per trovarne il senso bisogna guardare lontano, oltre l’arcobaleno. [Emanuele Di Nicola]
The Fabelmans
Grand Public
di Steven Spielberg
Durata: 151′. Anno: 2022. Produzione: Stati Uniti
A cosa serve il cinema? A mantenere una parvenza di controllo su una vita che ci pare priva di timoniere (e senza senso), ma anche a rivelare verità nascoste, quell’essenziale invisibile agli occhi che sfugge solo perché non gli prestiamo la necessaria attenzione, non inquadriamo bene le nostre circostanze, spesso perché preferiamo non accorgerci di ciò che altrimenti sarebbe dolorosamente palese.
Chiunque conosca la biografia di Steven Spielberg, e soprattutto abbia visto il documentario di Susan Lacy che porta il suo cognome, riconoscerà ogni singolo episodio della vita del regista, che in The Fabelmans ripercorre la genesi della sua passione per il cinema, identificando nella madre “Mitzi” il patrimonio genetico artistico e nel padre “Burt” la tenacia professionale e il genio organizzativo.
The Fabelmans, a cominciare dal cognome della famiglia protagonista, che è “fable man” scritto da un dislessico, quale è Spielberg, racconta un creatore di favole, come quella anni ’50 e ’60 che Spielberg immortala (dato che i genitori sono mancati da poco, lei a 97 anni e lui a 103) attraverso primissimi piani, che riproducono la capacità dei bambini di isolare e ingigantire le espressioni dei volti, e colori caramello, che restituiscono la vivacità cromatica con cui si può percepire la vita quando si è giovani (come lo era l’America di allora).
Ma per chiunque ami il cinema The Fabelmans è anche una caccia al tesoro per ritrovare ciò che in tutta l’opera di Spielberg raccontava già la sua storia famigliare sotto mentite spoglie, un po’ come è successo nel documentario Marx può aspettare rispetto alla filmografia di Marco Bellocchio. Ed è anche una caccia agli Easter egg disseminati per tutta la narrazione, culminanti nel clamoroso coniglio che esce dal cilindro nel finale.
The Fabelmans è una scatola dell’inventore piena di doppifondi e di finestre a sorpresa. Ma è anche una parabola sulla possibilità del perdono e la sacralità della gentilezza, entrambe indispensabili per una vita degna. [Paola Casella]
Astolfo
Grand Public
di Gianni Di Gregorio
Durata: 97′. Anno: 2022. Produzione: Italia, Francia
Quinta regia di Gianni Di Gregorio, che si allinea nel tocco registico alle quattro opere precedenti, e conferma pregi e limiti (o difetti?) dell’autore romano dopo il fulminante esordio con Pranzo di ferragosto (2008). Anche Astolfo è una simpatica commedia, con gli usuali ma funzionali ingredienti a cui ci ha abituato Di Gregorio: comicità leggera, senza volgarità; una regia piana, priva di inutili ghirigori autoriali; attori di contorno giusti; un’osservazione onesta della realtà italiana, certamente non approfondita, ma assolutamente non banale; un sano ottimismo. Però, si rimane sempre nel bozzettismo, che, per quanto pulito e pratico, resta superficiale.
Ma per capire questo film, il tipo di sfumatura che ha cercato di dargli Di Gregorio rispetto alle sue pellicole precedenti, bisogna tener presente le due citazioni che contiene: Colazione da Tiffany (Breakfast at Tiffany’s, 1961) di Blake Edwards e Pane, amore e fantasia (1953) di Luigi Comencini. Due capisaldi della commedia romantica (particolarmente il primo), che fanno da base allo svolgimento della vicenda, focalizzata sull’amore nella terza età. Il film di Edwards è una preziosità, un oggetto di culto che ha fatto sognare molte donne, e infatti in Astolfo Stefania piange copiosamente per l’amore ritrovato di Holly Golightly (Audrey Hepburn) sotto una pioggia torrenziale. Quello è il desiderio creato ad hoc da Hollywood per farci illudere che esista un “happy end”, mentre lo svolgersi della realtà è più vicino a quello che ha raccontato e mostrato il film di Comencini, molto più ruspante e (neo)realista.
L’Astolfo interpretato dallo stesso Di Gregorio non ha lo charme e la fermezza del comenciniano maresciallo Carotenuto, ma l’arrivo al paesello, un ritorno per l’esattezza, è molto simile: lo fa risultare un soggetto estraneo a quel mondo. Il paesello chiaramente si è evoluto (auto al posto dei muli, strade asfaltate che hanno sostituito le mulattiere), però permangono almeno due radicate caratteristiche, i personaggi buffi, che fanno da coro, e la figura del villain, in questo caso il sindaco e il prete. In Astolfo le parti che funzionano meglio per brio sono proprio quelle con lo scalcinato gruppetto maschile che attornia Astolfo, consigliandolo bislaccamente (ad esempio la scelta delle camicie), o punzecchiandosi tra loro. Un quartetto di facce che paiono uscite direttamente dalla commedia italiana degli anni Cinquanta. Meno avvincente, benché narrata con soavità e dolcezza, la storia d’amore tra i due personaggi protagonisti, poiché non aggiunge nulla di nuovo a quanto raccontato già in altre pellicole. [Roberto Baldassarre]
The Lost King
Grand Public
di Stephen Frears
Durata: 108′. Anno: 2022. Produzione: Regno Unito
Impeccabile. Questo è l’aggettivo che si potrebbe utilizzare per descrivere The Lost King di Stephen Frears, ma che si adagia bene a quasi tutta l’opera filmica del regista inglese. Impeccabile la regia; impeccabile la recitazione; impeccabile il taglio della sceneggiatura; impeccabili i dialoghi. Ma questa ineccepibilità resta, purtroppo, quasi in superficie. The Lost King è un film che avvince pienamente nel momento della visione, perché si segue con passione la vicenda narrata, si empatizza con la protagonista, si ride nei momenti giusti, però alla fine della visione si rimane pressappoco inappagati, poiché manca quella completa allure presente nelle migliori opere di Frears, come per esempio Le relazioni pericolose (Dangerous Liaisons, 1988), Rischiose abitudini (The Grifters, 1990) o The Queen (2006). Il difetto di The Lost King, sceneggiato da Steve Coogan e Jeff Pope prendendo ispirazione dal ritrovamento dei resti di Riccardo III, avvenuti a Leicester nel 2012, è anche di avere una certa somiglianza narrativa con Philomena (2013), non a caso sceneggiato dai due sopracitati autori.
Pertanto la pellicola di Frears, realizzata dopo cinque anni di silenzio cinematografico inframmezzato da alcuni lavori per la televisione, va accolta come un ulteriore – e ben cesellato – ritratto su una donna caparbia, e come un altro – ironico – tassello circostanziato sulla società inglese. Philippa Langley è uno scricciolo che decide di non soccombere ai soprusi della vita, di reagire dopo l’ispirazione avuta da una rappresentazione teatrale di Riccardo III di William Shakespeare, personaggio storico a lungo bistrattato per la sua deformità (una scogliosi propagandata come una purulenta gobba) e ritenuto un usurpatore non meritevole di menzione regale. L’intuizione degli autori è quella di far interpretare il personaggio di Philippa, nella vita reale una fascinosa donna bionda, alla minuta Sally Hawkins, per evidenziare questa disparità tra lei e la società. Un Davide femminino che riesce a vincere contro Golia (l’ambiente che la circonda), o perlomeno a tenergli testa. Una collettività inglese del ventunesimo secolo non proprio dissimile da un’opera del Bardo, con concrete usurpazioni (lo scippo, da parte di Richard Taylor, della scoperta a Philippa), la corona reale sullo sfondo (che resta nell’ombra), un fool che commenta con sagacia lo svolgersi delle vicende (Steve Coogan nel ruolo di John Langley, marito di Philippa), un pacioso personaggio (Richard Buckley, interpretato da Mark Addy, che si appassiona al progetto tramite una gustosa torta fatta dalla protagonista), una romantica storia d’amore (il ricongiungimento della coppia). [Roberto Baldassarre]
Piove
Alice nella città
di Paolo Strippoli
Durata: 95′. Anno: 2022. Produzione: Italia/Belgio
In una Roma piovosa e spettrale la famiglia Morel è spaventata da un inquietante fenomeno: la città è invasa da strane esalazioni e una melma informe si diffonde dal sottosuolo, portando a galla rancori mai sopiti, sensi di colpa e un’inspiegabile violenza urbana.
Piove (distribuito da Fandango), il secondo film di Paolo Strippoli dopo A Classic Horror Story co-diretto insieme a Roberto De Feo, ha subito la scure del divieto ai minori di anni 18, ma sono incomprensibili le ragioni che hanno spinto la Commissione IIIª per la classificazione delle opere cinematografiche a imporre una censura così feroce, tanto più che, seppur alcune delle singole scene possano apparire disturbanti, non sussiste la motivazione secondo la quale ai momenti più crudi non corrisponderebbero «momenti narrativi di segno opposto». Se la sceneggiatura di Jacopo Del Giudice (vincitrice del Premio Solinas nel 2017) funge infatti da potente “detonatore sociale”, la messa in scena sublima l’horror cosmico e quello organico in una densa metafora sociale che rilegge i meccanismi su cui si regge la società delle nevrosi contemporanee. Un “geo-horror” a vocazione esistenzialista, dunque, messo in scena attraverso un impianto drammaturgico che trascolora poi nel cinema di puro terrore.
L’alienante contemporaneità, sembra dirci il regista, produce apocalissi fredde, di cui ci si accorge solo al culmine del pathos, e Roma si trasforma in un varco liminale in cui il ceto medio claudicante si dà battaglia per il rimosso che torna a galla, scardinando le regole del vivere comune. La più agghiacciante delle ghost stories contemporanee tracima – come l’esondazione dei condotti fognari – sfondando gli argini dei rapporti familiari, erodendo lentamente ogni appiglio verso la riconciliazione degli affetti, per poi esplodere in un orrore che non lascia scampo, nemmeno quando sembra di essere in presenza di un redimente happy end. Il lento e graduale stillicidio è orchestrato in modo che le allucinazioni e i fantasmi (che fantasmi in senso stretto non sono) creino l’ancoraggio al genere di riferimento, a mo’ di correlativi oggettivi del dolore: la donna nuda che sbuca dalle fogne, una madre che appare ai figli e al marito contorcendosi in guizzi diabolici, un golem di fango in disfacimento.
Antropologico ma meno lezioso dei film di Ari Aster, vicino alle atmosfere ctonie care a Robert Eggers, Piove ha il grande pregio di mostrare gli incubi della quotidianità senza vuoti virtuosismi, lasciando che l’horror sgorghi e diventi la chiave di volta per raccontare i conflitti generazionali di una società al collasso emotivo. [Vincenzo Palermo]