Cinema e terrorismo: un repertorio storico, a futura memoria (Quarta parte)

Su Cinecriticaweb, la quarta e ultima parte del saggio di Gianni Olla dedicato a come il cinema ha rappresentato il terrorismo italiano.

Cinema e terrorismo

A questo punto, per cercare di dare un senso più o meno unitario al gran numero di opere brevemente sintetizzate, occorre preliminarmente chiarire che il rapporto tra quelle pellicole e la loro rappresentatività, non solo sociologica ma specificamente storica, è abbastanza problematico, visto che non si può ancora ritenere “stabilizzato” quel periodo: troppi protagonisti o testimoni ancora attivi, in grado e quasi “ansiosi” di raccontarsi, come si è visto nei due documentari citati (Il sol dell’avvenire e Sogni infranti), ma anche pronti a partecipare a dibattiti pubblici sugli stessi temi, dunque raccontando il passato e loro stessi, quasi sempre autoassolvendosi, come attori della Storia.

Va comunque sottolineato un primo dato inequivocabile: di fronte alla stabilizzazione dell’universo politico-sociale, un tempo segnato dal terrorismo, nero o rosso, i media che lo hanno raccontato in maniera documentaria e “finzionale” sono profondamente cambiati e fu anche la continua emergenza di quegli anni a determinarne il cambiamento, velocissimo e forse imprevisto. Già negli anni Settanta, sempre più velocemente, la televisione soppiantò il cinema come strumento di elaborazione, appunto documentario e poi anche “finzionale”. Questa mutazione epocale è poi proseguita a ritmi incalzanti, accompagnata dall’emergere dei nuovi media comunicativi che, in termini generali, sono denominati “social media”, ovvero luogo virtuale, ovvero situato nell’infinito spazio di Internet, in cui circolano le opinioni personali su ogni aspetto del mondo e della vita, appunto, anche sociale.

Comunque, proviamo ad ipotizzare un percorso che ci consenta di analizzare i film che sono stati citati e, nel contempo, cercare delle “verità” storiche a partire dai contenuti delle stesse pellicole o della documentazione televisiva. Facilmente, si può dare per scontato che, anche tra venti o trent’anni, non ci saranno rivelazioni definite e credibili, o meglio testimoniate da documenti e dichiarazioni, celate per decenni, sul terrorismo nero, ovvero sulle bombe sui treni, sulla strage di piazza Fontana, su quella di piazza della Loggia a Brescia e sull’altra, avvenuta nel 1980, alla stazione di Bologna. Non che non ci siano stati processi e persino sentenze di colpevolezza passate in giudicato e, nel caso di Bologna, dei condannati che stanno ancora in carcere. Ma resta sempre un alone d’ombra sui mandanti, cioè su un potere nascosto che non verrà probabilmente mai rivelato.

Cambiando versante politico, neanche il caso Moro, con tanto di condanne, pentimenti e confessioni, può dirsi risolto: le zone d’ombra, le reticenze, i silenzi dei maggiori esponenti politici dell’epoca testimoniano una sorta di cortina fumogena che non verrà mai dispersa ed anzi finirà per solidificarsi in una “verità” assoluta. D’altronde, è stata proprio la trasmissione di Sergio Zavoli La notte della Repubblica, già citata, a comunicare a milioni di spettatori l’impossibilità di una verità “vera” su quei fatti. Ovviamente, anche quelle testimonianze reticenti sono ormai Storia con la maiuscola.

Infine, quasi casualmente, o per semplice dimostrazione della tesi di McLuhan sul mezzo che si fa messaggio, la televisione ha costruito, volontariamente o meno, una sorta di Storia dal basso, vista cioè con gli occhi di un’opinione pubblica che scendeva in piazza per chiedere alla classe politica quando sarebbe finita la stagione del terrore contro cittadini inermi. Occorre infatti ricordare che ai funerali delle vittime della strage di piazza Fontana c’erano migliaia di cittadini che, in piazza del Duomo, assediavano pacificamente, ma con la rabbia trattenuta dalle lacrime, i governanti del momento, chiedendo che cosa avrebbe fatto il governo per fermare quelle stragi. Ecco un altro frammento storico che resterà e che fu quasi casuale. Né gli esponenti politici presenti né i giornalisti si aspettavano una reazione rabbiosa, benché pacifica e quasi melodrammatica.

D’altro canto, considerato che nelle pagine precedenti si è citata spesso una sorta d’indifferenza o comunque di estraneità dell’opinione pubblica nei confronti dei terroristi rossi che, almeno nelle fabbriche, cessò con l’uccisione del sindacalista Guido Rossa, si può ricordare che i morti per mano del terrorismo di sinistra, fino ai primi anni del nuovo secolo, superano di poche unità il centinaio di persone e quasi tutte individuabili in categorie precise: forze dell’ordine, magistrati, politici (appena due), dirigenti di fabbrica e, nell’ultimo periodo, due economisti (D’Antona e Biagi) consulenti del governo. Nulla di paragonabile alle centinaia di morti e feriti – gente comune – causati dagli attentati dei terroristi di destra.

Tornando al ruolo dell’informazione televisiva, nel 1977, l’ennesimo processo ai presunti responsabili della strage di piazza Fontana si svolse a Catanzaro, lontana dalle grandi metropoli e dunque senza pericolo di disturbi da parte dell’opinione pubblica. Il direttore di Rai 2, Massimo Fichera, ebbe un’idea rivoluzionaria che gli porterà sfortuna (verrà infatti “dimesso” dalla sua carica, qualche mese dopo la fine del processo): trasmettere le udienze in diretta. I telespettatori, ovvero la stessa opinione pubblica che aveva “assalito” pacificamente i governanti in piazza del Duomo, si trovarono così ad assistere ad un’incredibile sfilata di testimoni autorevoli, cioè ministri, sottosegretari, alti funzionari, che alle maggior parte delle domande dei magistrati rispondevano con dei “non so”, “non ricordo”, “non ero presente”, “non ho mai avuto rapporti con…”. Insomma, negavano sempre ogni connivenza – il termine è certo eccessivo – o forse semplicemente l’intrusione nell’apparato di governo, dai piani alti a quelli bassi, di personaggi legati all’eversione di destra, quando non direttamente al terrorismo, visto che il processo riguardava la strage di piazza Fontana. Anche questa è diventata, ovviamente, documentazione storica.

Ed ora si può riprendere il discorso sul valore o meno, dal punto di vista storico, dei film citati nei primi capitoli e riguardanti il terrorismo rosso. Facilmente, le pellicole già analizzate sul caso Moro, quelle cronachistiche – da quella di Ferrarauella di Ferraraqu alla recentissima serie televisiva di Bellocchio, che pure cerca di scavare nelle contraddizioni delle inchieste successive al rapimento e all’uccisione del presidente democristiano – non offrono alcuno spunto traducibile in reperto storico per gli anni o decenni futuri. La tv, in quel senso, fu un contenitore stracarico d’informazioni – certo sempre contraddittorie – che sono passate alla storia anche per quel “finale di partita”, grottesco e surreale come un frammento di un film di Buñuel: il funerale pubblico di Aldo Moro, senza la sua salma, requisita legittimamente dalla famiglia per una cerimonia privata. Fu officiato da Paolo VI – qualche giorno prima dell’assassinio di Moro si era rivolto “agli uomini delle Brigate Rosse”, chiedendo clemenza – che alla fine della cerimonia alzò gli occhi al cielo e quasi bestemmiò, rimproverando Dio per non aver ascoltato la preghiera del suo vicario in terra.

Al capo opposto stanno le “spy stories” dell’americano Frankenheimer, di Renzo Martinelli e di Aurelio Grimaldi: nessuna di queste regge il confronto con la sfilata di misteri esibita dai servizi televisivi quotidianamente. Infine, i tre film di Bellocchio, Sogni infranti, Buongiorno, notte e il recentissimo Esterno notte, costituiscono anche una sorta d’introduzione – ma anche un riepilogo – del clima quotidiano di terrore che, dal rapimento Moro, si estese a tutta la società, soprattutto nelle grandi città del nord (Torino, Milano, Genova) e, ovviamente, a Roma.

Insomma, a parte le opere sul caso Moro e i documentari Il sol dell’avvenire e, appunto, Sogni infranti, c’è un unico film di finzione, La prima linea, dove si descrivono le azioni dei terroristi con tanto di nome e cognome. Così, le pellicole che servono anche oggi e, probabilmente, serviranno nei prossimi decenni a lasciare delle tracce storico-sociologiche sono quelle, non troppo numerose, dedicate al rapporto tra terroristi e società civile, ovvero la classe di appartenenza, i rapporti familiari, le esitazioni e i pentimenti, le paure e, verso la fine dell’avventura, o anche prima, le fughe in Francia o in America Latina e, talvolta, com’è accaduto per Cesare Battisti, “ospite” in Brasile per diversi decenni, l’estradizione e la prigionia senza limiti di tempo, almeno per ora.

Insomma, dal punto di vista audiovisivo (e con questo termine unifichiamo necessariamente cinema e televisione), gli “anni di piombo” sono, soprattutto, un sorta di sottogenere drammatico che consentirà, anche tra venti o trent’anni di rileggere una parte della storia d’Italia di quel tempo infausto, proprio dal punto di vista della mutazione profonda del pensiero e dell’azione delle giovani generazioni.

Il che significa, però, anche allargare il quadro storico, partendo dal luglio 1960, con il risveglio dell’antifascismo militante in occasione del congresso del Movimento Sociale Italiano a Genova e del varo del governo Tambroni, appoggiato appunto dai postfascisti. Da lì hanno inizio le inquietudini dei fratelli maggiori e dei padri che magari avevano fatto la Resistenza, come appunto sosteneva Rossana Rossanda. E ancora, nel 1964, il presidente della Repubblica Antonio Segni diede il suo assenso al famigerato “Piano Solo” del comandante dell’Arma dei carabinieri (Giovanni De Lorenzo), che consisteva nell’arrestare e trasferire in una base segreta in Sardegna migliaia di militanti e dirigenti dei partiti di sinistra. Il presidente fu affrontato segretamente dal socialdemocratico Saragat e dal presidente del consiglio Aldo Moro: ebbe una trombosi cerebrale e fu costretto a dimettersi.

Il fallito “golpe” fu svelato nel 1967 da una inchiesta dell’Espresso, che costò il carcere al direttore Eugenio Scalfari e al condirettore Lino Jannuzzi, poi scarcerati perché eletti in Parlamento nelle liste del Partito Socialista. Ma intanto avevano avuto inizio le prime agitazioni studentesche, in prevalenza universitarie e ancora chiuse all’interno delle aule e delle facoltà. Poi, appunto nel 1968, con gli scontri tra la polizia e gli studenti che avevano occupato la facoltà di Architettura di Roma, arriverà la politicizzazione – borghese, secondo Pasolini, che magari aveva anche ragione – del movimento studentesco e la nascita dei gruppi extraparlamentari di estrema sinistra dalle cui schiere, come si è scritto, uscirono non pochi terroristi.

Se vogliamo, c’è un bel documento storico – magari improprio, anche questa volta, visto che fa parte di un film di finzione – che racconta questo incontro/scontro tra la contestazione studentesca, chiusa all’interno dell’università, e i proclami di lotta sociale e politica che daranno vita ai movimenti della sinistra extraparlamentare. È il cortometraggio di Marco Bellocchio Discutiamo, discutiamo, episodio del film Amore e rabbia (1969). Mostra il regista, mascherato da professore, che pontifica sul fatto che l’obbiettivo non può e non deve essere una riforma universitaria, ma la distruzione della società borghese che ha creato questa università. È il primo titolo, non già politico ma quasi propagandistico, di un regista che successivamente, come si è scritto, aderirà all’Unione dei Comunisti Italiani.

Gli altri tre film politici di Belllocchio, prima della pellicola e poi della serie sul caso Moro, saranno il pregevole e quasi contiguo con la commedia La Cina è vicina (1967), poco amato dallo stesso regista, e quindi Sbatti il mostro in prima pagina (1972) e Marcia trionfale (1976), che invece sono le prove meno riuscite della lunga e gloriosa carriera del regista piacentino e forse spiegano il successivo impegno in film, documentari e di finzione, già analizzati (Sogni infranti, Buongiorno, notte, Esterno notte) e fortemente critici non solo nei confronti della lotta armata ma, in generale, della sua appartenenza all’estrema sinistra.

Il controcanto di questo esplodere sociale, politico, legislativo (ricordiamo obbligatoriamente le battaglie per il divorzio e per l’aborto, nonché per il nuovo diritto di famiglia, ancora quasi feudale) è la paura di una vera svolta a sinistra. Ed è da questa paura che nascono i diversi atti terroristici di destra. Agli storici del futuro “l’ardua sentenza”. Tornando alla periodizzazione per brevi cicli storici, gli anni Settanta sono i più movimentati, come si può capire dalle rilevazioni delle prime pagine di questo saggio, ma progressivamente gli altri due decenni (Ottanta e Novanta) vedono un’esplosione politica incruenta: il crollo del comunismo e poi, in Italia, la morte dei vecchi partiti, di governo o meno, spazzati via dalle inchieste giudiziarie di Mani Pulite. Nonostante questa mutazione profonda e inaspettata della società e della politica, gli ultimi fuochi del terrorismo non si spengono che ai primi anni del nuovo secolo.

Ora, concentrandosi unicamente sulla constatazione di un universo piccolo e medio borghese che, da un punto di vista sociologico, costituisce la parte più interessante della filmografia citata, si può scrivere che anche in un repertorio abbastanza vasto e variegato, come quello esposto nei capitoli iniziali, e che comprende, come si è scritto, anche i film o le serie televisive – per usare un termine che allora non esisteva –, l’eredità del cinema italiano di genere e d’autore rimane saldamente in testa, tanto che tra i primi titoli di un certo interesse ci sono le due pellicole di Risi (Mordi e fuggi ma soprattutto Caro papà) e Caro Michele di Monicelli che, non a caso, soprattutto per volontà dei produttori, vira decisamente, nella seconda parte, verso la la commedia, grazie al personaggio, a suo modo rivoluzionario, ma solo sul piano della rivendicazione di un femminismo assolutamente pacifico, interpretato da Mariangela Melato.

E ancora, il personaggio di Tognazzi nella Tragedia di un uomo ridicolo conserva di nuovo molte delle caratteristiche dei personaggi della commedia e lo sviluppo del film si muove appunto, come in Caro papà, tra la persistenza della classica rappresentazione di una borghesia (questa volta rurale) al limite della caricatura e le rivolte contro i padri delle giovani generazioni. Ma anche, uscendo dall’ambito del super genere italiano, si può ricordare che, già nel 1974, Luchino Visconti diresse Gruppo di famiglia in un interno, un film contestatissimo, anche perché finanziato da un noto editore di destra, Rusconi, nel quale si assisteva ad un confronto, dapprima aspro e velenoso, tra un collezionista di opere d’arte (l’attore è Burt Lancaster) e una famiglia dell’alta borghesia che è riuscita, dopo infinite trattative, a prendere in affitto l’appartamento, di proprietà del collezionista, al piano superiore. In questa famiglia, già postsessantottina, benché ricca e borghese, c’è anche il figlio maggiore, sospettato di terrorismo, ma quasi amato dal vicino che cerca di riportarlo alla sua condizione di borghese.

Continuando con le derivazioni, i rapporti tra i terroristi e le loro famiglie sono, anche nei casi migliori, come in Colpire al cuore di Amelio, dei frammenti di un’Italia quotidiana, sorpresa dal fatto che la serenità della classe media sia stata turbata dal terrorismo. Insomma, tutto si tiene, ovvero il cinema italiano postneorealista, basato sulla prevalenza sociologica della classe media, viene naturalmente “travasato” nel cinema degli anni di piombo, a dispetto dei tanti proclami politici che inneggiavano alla “dittatura del proletariato”. Riprendendo la considerazione di Monicelli, già citata, sull’eclissi della borghesia progressista come motore del cambiamento, si può ricordare che le “trame nere” degli anni Sessanta (il tentato golpe di Segni e De Lorenzo) non furono mai “trattate” da un cinema che, pure, non era estraneo alle tematiche sociali e politiche del tempo: giusto per fare un solo esempio, basta ricordare i fratelli Taviani, Gillo Pontecorvo e persino il Terzomondismo quasi caricaturale di molti western “all’italiana” che, tra i registi e gli sceneggiatori, videro personaggi impegnati a sinistra come Lizzani, Pasolini e persino Franco Solinas.

Ma soprattutto, non tenendo conto che il cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta – almeno per la prima metà del decennio – fu sostenuto principalmente dalle opere popolarissime con Franchi e Ingrassia e, appunto, i western all’italiana, e ancora con i “decamerotici” postpasoliniani, il cinema d’autore ha il marchio incancellabile della riflessione sulla decadenza della borghesia, dalla Dolce vita (1960) di Fellini all’intera – o quasi – filmografia di Antonioni, il cui contraltare è, non a caso, Il sorpasso, dove il tragico finale è una sorta di contrappasso della vita da sfaccendato del “borghese” Vittorio Gassman, che, dieci anni dopo, si rincarnerà in un film poco noto e non molto apprezzato dalla critica, ma pure, capace di raccontare la nuova borghesia degli affari, che diventerà, sul piano ideologico, il bersaglio del terrorismo di sinistra.

Insomma, citando di nuovo Monicelli, la lunga filmografia degli “anni di piombo”, ha come segno culturale e sociale proprio la decadenza di quella borghesia e la rivolta velleitaria dei figlio di quella stessa borghesia, punto di partenza di una legittima contestazione giovanile che cambiò davvero il paese e in meglio, ma che successivamente diventò cruenta e sanguinosa: una vera uccisione dei padri. Chiuderei questa serie di riflessioni scomodando di nuovo Nanni Moretti, autore – qui invisibile come personaggio – di uno straordinario documentario, La cosa, girato nell’aprile del 1990 in numerose sezioni del Partito Comunista di ogni parte d’Italia, dove i militanti discutevano animatamente, e senza alcun intervento del regista, la proposta del segretario Occhetto di cancellare la definizione “comunista”, per diventare il Partito Democratico della Sinistra (PDS), come poi verrà ratificato a Bologna, lo stesso anno, nell’ultimo congresso del PCI.

È curioso constatare, dopo tanto tempo, che se l’“impero del male” – la definizione è di Ronald Reagan – era ormai alla fase finale, senza più, appunto, “l’impero”, il PCUS rimase in vita fino all’estate del 1991, ma, in Europa, se pure era giustamente tramontata la fantasiosa parola d’ordine di Berlinguer sull’Eurocomunismo, mai nato ed anzi estinto senza clamori sia in Spagna che in Francia, il Partito Comunista Italiano fu il vero baluardo della democrazia, come riconoscono gli stessi brigatisti. Anche questa contraddittoria constatazione fa parte delle riflessioni storico-sociologiche: nella Cosa non si parla di terrorismo, ma si capisce che quelle sezioni sono state fortini invalicabili per tutto il secondo dopoguerra e anche durante gli “anni di piombo”.


di Gianni Olla
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