Nowhere

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nowhereNowhere è il non luogo dell’Utopia nell’opera di William Morris, News from nowhere (1891), mentre nel film omonimo dello scrittore cileno Luis Sepulveda, e sua opera prima come regista, è piuttosto una landa desolata (il deserto di Atacama, nel Cile del nord) che richiama alla memoria la fortezza Bastiani del buzzatiano Il deserto dei tartari, dove un manipolo di giovani militari, ad eccezione del comandante e del cuoco, tiene prigionieri cinque persone comuni, rastrellati nella capitale con l’accusa di essere semplicemente dei sovversivi. Né metafisica, né utopica, né metafora politica, ma più semplicemente il goffo tentativo di apologo sulla libertà e sul potere che opprime, ridotto per così dire ad un’avvilente semplificazione, ad uso di un pubblico ormai abituato a ricevere ogni sorta di messaggi etico-morali e politici in forme sintetiche o stereotipate. E il cinema, in questo caso, si fa veicolo di una banalizzazione che non si rivela utile né alla comprensione della realtà politica latinoamericana, né tantomeno alla costruzione di un efficace universo parallelo. Nel film ogni elemento narrativo sembra tradire se stesso, ossia la propria origine prefilmica in nome di una messinscena approssimativa sia in senso puramente narrativo che nella dialettica politica ridotta, più per incapacità di scrittura che per cinismo, ad un puro “gioco” di ombre.

Innanzitutto, l’aver voluto dare un’ambientazione “storicizzata”, con il generale Pinochet in persona che arringa i propri sottoposti, ottiene piuttosto l’effetto di svuotare l’apologo di quell’atemporalità necessaria a ridare la giusta dimensione culturale e mentale delle idee. Privi di spessore psicologico e narrativo, i cinque personaggi non sono che maschere o se si vuole, fantasmi di vittime, vere o rappresentate di tutte le dittature. Cosa dire poi della prima coppia di figure marginali, una donna e un omosessuale, che si interrogano sulla sparizione dei loro rispettivi partners? Parodie dei personaggi in carne e ossa, poniamo, di un film argentino come La storia ufficiale (1985) di Luis Puenzo. Della seconda, formata da due rivoluzionari, uomo e donna, si può forse dire che essi rappresentino l’ormai logora rappresentazione dei vecchi stereotipi rivoluzionari tipici del continente latinoamericano. Ma vi è un terzo personaggio, uno yankee (svogliatamente interpretato da Harvey Keitel), ex parà deluso dal proprio governo, tuttavia per niente deciso ad abbracciare la causa rivoluzionaria, che dunque avrebbe potuto essere un personaggio complesso proprio perché contraddittorio, l’ultimo di una serie di cinici sfuggiti dalle grinfie dello zio Sam, o piuttosto infiltrati nell’ “altro mondo”, quello delle rivoluzioni attuabili, ed invece non fa che citare a sproposito versi di grandi poeti.

Animato, infine, da una sincera volontà antimilitarista (derivatagli dall’esperienza politica diretta), che curiosamente rammenta il sagace umorismo del soldato Svejk, appartenente ad una mitologia letteraria estranea all’immaginario latinoamericano, Sepulveda, autore anche della sceneggiatura, costruisce un’ipotesi di rappresentazione verticistica del potere e dell’oppressione che per sua natura tende ad accomunare vittime e carnefici (i soldati di basso rango) in una sola “carne da macello”, senza tuttavia giungere ad alcun esito espressivo convincente. Infatti è prevedibile il ricorso alla caricatura d’ambiente e dei personaggi secondari (in special modo i soldati addetti al campo) che neppure qualche arguzia comica, come nella sequenza finale della fuga che rammenta i fratelli Coen di Fratello, dove sei?(2000), riesce a trasformare in sincero e solido ritratto umano.


di Maurizio Fantoni Minnella
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