Pinocchio

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pinocchio-benigniFinalmente, purtroppo, è arrivato. Anticipato dalla gran cassa di un battage pubblicitario inusuale per un film italiano, distribuito quasi nella metà delle sale nazionali, pronto a scontentare un po’ tutti.
Nello sterile ma irresistibile gioco di somiglianze e rimandi, di definizioni e catalogazioni a tutti i costi, Pinocchio sfugge e si fa beffe, come il tronco impazzito che costituisce l’unica vera invenzione del film, di ogni similitudine. Molto più comodo allora, volendone proporre una recensione, procedere ispirandosi ad una teologia della negazione che cerchi di scartare, mano a mano, le ipotesi meno plausibili.

Pinocchio non è un film per bambini: decisamente noiosa la prima parte, nonostante il tentativo di riprodurre, nell’estrema fedeltà a volte pesante alla favola di Collodi, l’immaginario infantile, ma dimenticando che l’infanzia è cambiata e non è disposta a credere a questa fata triste dal viso stanco e vecchio e ad una serie di meccanismi comici che funzionavano alla perfezione ai tempi di Chaplin, vale a dire qualche annetto fa. Al di là delle tonnellate di carta pesta uscite dalla straordinaria fantasia di Danilo Donati (al quale il film è dedicato), dietro la scelta dogmatica verso un antinaturalismo che poteva essere un’ottima chiave di volta e lettura, si percepisce piuttosto una forte mancanza di ispirazione.

Pinocchio non è un film per adulti: poco o nulla si è fatto per cercare di riattualizzare la favola, rendendola metafora di altro; la semplicità anacronistica, a cui si faceva riferimento, diventa stucchevole e banale per un occhio adulto, e la voce in falsetto unita alle movenze da bambino capriccioso sfoderate dal protagonista non possono, alla lunga, non infastidire. Non dimentichiamo, poi, il ricordo indelebile, che si fa immediatamente confronto, delle versioni di Comencini e Walt Disney.

Pinocchio non è un film di Benigni: questa, senza dubbio, l’assenza più ingiustificata e visibile; Benigni rinuncia ad essere Benigni, si annulla in un burattino senz’anima, si frustra e frustra lo spettatore ogni qual volta ci si aspetterebbe di riconoscerlo e vederlo zompettare fuori, come il “piccolo diavolo” liberato dal pesante involucro della grassa signora. Del resto, anche quei pochi decimi di secondo di pura, forse inconscia, autoreferenzialità (i saltelli nella casa del babbo, la cavalcata tra teste e poltrone per ricevere l’oscar delle marionette…) lasciano intravedere un corpo, e un uomo, un po’ stanco di essere se stesso.

Pinocchio non è un film felliniano: il riferimento al grande maestro è costante, insistito, ingombrante e presente in tutte le scelte artistiche: la musica di Piovani imita in maniera ossessiva le marcette di Nino Rota, ma riesce solo ad esasperare lo spettatore; il meraviglioso talento visivo di Donati non viene valorizzato da opportune scelte registiche, ma utilizzato piuttosto come se si trattasse di una bella scenografia teatrale piatta e ferma; la ricerca maniacale della faccia giusta al posto giusto non è dettata da un progetto d’insieme coeso e preciso, e finisce per affidarsi completamente ad una supposta autonomia del volto in cui è lo spettatore a dover contestualizzare e ricostruire i personaggi autonomamente, senza l’aiuto di una valida sceneggiatura.

Pinocchio, di certo, non è tutto questo. Su cosa sia veramente, il dibattito è aperto.


di Ludovico Bonora
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